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La quinta puntata di Touch (Legami di famiglia) procede, come da regolamento, sparecchiando la tavola e progressivamente riordinandola grazie ai comandi del motore muto Jake Bohm, che questa volta pesca il numero 22, e al braccio fermo di papà Martin. Piaccia o no, Touch funziona così. In Legami di famiglia le peripezie del personaggio di Sutherland salvano la pellaccia a un ex killer, la libertà di colei che lo vuole far fuori, la vita di un ragazzino bisognoso di trapianto di midollo; in più danno una chance amorosa a un medico arabo che lavora in Canada, sottraendolo, per la gioia sua, ma soprattutto della giovane futura moglie, a un matrimonio combinato. E’ tutto, inutile dirlo, collegato; segmenti narrativi elementari che si muovono, che vorticano con una velocità di fuga troppo bassa per liberarsi dal supremo intrico relazionale; del resto – Touch non manca di ripetercelo – così va il mondo, così va la materia.

 
 

Martin paga a caro prezzo, in questa puntata, il suo farsi esecutore delle volontà riparatrici del figlio: infatti, papà Bohm, impegnato con il salvataggio di due vite – l’assassina che vuole accoppare il killer dei suoi genitori – non va a un fondamentale incontro fissato per valutare il suo rapporto con Jake, deludendo Cloe Hopkins – il personaggio della Mbatha-Raw continua a barcamenarsi tra contrizione, comprensione e desiderio di ramanzina – e, soprattutto, chi avrebbe dovuto esaminarlo. Novità anche sul fronte Arthur Teller: il personaggio di Danny Glover si conferma valido e bizzarro aiutante di Martin. Per di più, si convince definitivamente che Jake sia uno di quei bambini straordinariamente dotati ai quali ha dedicato molto studi che gli sono valsi, più che la gloria accademica, l’oblio e l’etichetta di stravagante ciarlatano.

Alle porte c’è una sesta puntata; qualcuno potrebbe non attenderla con trepidazione, o, peggio, lasciar perdere la serie ideata da Tim Kring. Potrebbe averlo stancato l’ormai consolidata veste da Ultime dal cielo 2.0. Niente Gary Hobson e Chicago Sun Times, in Touch, ma un sacco di bytes, tante esistenze da raddrizzare e il pretenzioso (ma legittimo) desiderio di mandare un infallibile messaggio sul senso dell’esistenza, soprattutto con le aperture/chiusure guidate dalla voce di Jake, sconfinanti a volte nell’ecumenismo posticcio di alcuni spot delle compagnie telefoniche, anche se a tratti capaci di pregevoli guizzi di poesia audiovisiva. E un po’ di fastidio, al solito fiaccato spettatore, lo potrebbe causare il lavoro limitato sui personaggi centrali, con il conseguente sospetto che, alla fine, la serie possa riassumersi in un “Il rapporto tra Martin e Jake migliora, intanto sistemano il mondo”. Al di là di queste bacchettate sulle nocche, comunque, occorre, senza tante elucubrazioni, domandarsi se si abbia voglia di seguire ancora il “cavaliere invisibile” Kiefer Sutherland: probabile che, magari facendosi un po’ desiderare, si liberi un “sì”.

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