Uscito nel 2015 e diretto da Lee Toland Krieger, Adaline – L’eterna giovinezza (la recensione) è un dramma romantico con sfumature fantastiche che ha conquistato il pubblico grazie alla performance di Blake Lively e a un’idea affascinante: una donna nata all’inizio del Novecento che, a seguito di un misterioso incidente, smette di invecchiare. Il film intreccia amore, perdita e immortalità in una narrazione che attraversa un secolo di storia americana, mantenendo un tono malinconico e raffinato. Ma la domanda che molti spettatori si pongono è: la storia di Adaline è realmente ispirata a fatti o persone vere?
Adaline non è basato su una storia vera
Nonostante la cura dei dettagli storici e l’atmosfera quasi realistica che accompagna la protagonista attraverso le epoche, Adaline – L’eterna giovinezza non è basato su una storia vera. Il soggetto è completamente originale, scritto dagli sceneggiatori J. Mills Goodloe e Salvador Paskowitz, che hanno immaginato una fiaba moderna sul tempo, l’amore e la paura di cambiare. L’idea nasce da una domanda narrativa classica: cosa accadrebbe se una persona smettesse di invecchiare ma fosse condannata a vivere per sempre nascosta dal mondo che cambia?
Il film utilizza un pretesto pseudo-scientifico – un incidente d’auto e un fulmine che altera il metabolismo cellulare di Adaline – per giustificare l’immortalità della protagonista. Ma il cuore del racconto è profondamente umano: la difficoltà di accettare il trascorrere del tempo e di lasciarsi andare alle emozioni quando la vita sembra eterna.
Il film non è tratto da un libro, ma ha ispirazioni letterarie
Adaline – L’eterna giovinezza non nasce da un romanzo, ma dialoga con un immaginario stratificato. Sul versante letterario, riecheggia Oscar Wilde (Il ritratto di Dorian Gray), dove la giovinezza eterna è più maledizione che dono, e F. Scott Fitzgerald (il racconto The Curious Case of Benjamin Button), che interroga il rapporto fra identità e tempo biologico. Affiorano anche affinità con Natalie Babbitt (Tuck Everlasting), favola sull’immortalità come esclusione dalla vita, e con la sensibilità romantico-fantascientifica di Richard Matheson (Bid Time Return/ Ovunque nel tempo): la sospensione del tempo come dispositivo emotivo prima che scientifico.
Al cinema, i rimandi più evidenti sono Highlander (l’“eterno” che paga la solitudine come prezzo della sopravvivenza) e Il curioso caso di Benjamin Button di Fincher (montaggio a epoche, identità che si ridefinisce nei decenni). Adaline però se ne distacca scegliendo il melodramma intimo: niente mitologia guerriera né paradossi temporali spinti, ma micro-conflitti quotidiani (documenti, lavoro, relazioni) che mostrano come l’eternità eroda il tessuto sociale prima ancora che il corpo.
La giustificazione pseudo-scientifica (l’incidente e la “spiegazione” in voice-over che richiama processi cellulari come l’accorciamento dei telomeri e l’azione di enzimi “eccezionali”) va letta come cornice verosimigliante, non come hard science: serve a spostare l’attenzione dall’“impossibile” al costo umano dell’impossibile.
Sul piano formale, il film costruisce credibilità storica con:
- Costumi e scenografia che attraversano decenni (San Francisco come ancora emotiva e geografica).
- Oggetti-memoria (album, fotografie, pellicole) usati come prove narrative del tempo che passa sugli altri, non su Adaline.
- Flashback selettivi: non un’enciclopedia del Novecento, ma snodi affettivi che spiegano le scelte di fuga/occultamento dell’identità.
Il risultato è una fiaba moderna autonoma: non un adattamento letterale, ma un’opera originale che metabolizza archetipi e li rielabora in chiave sentimentale, ponendo la domanda centrale del film: senza la possibilità di cambiare, possiamo davvero vivere – e amare – fino in fondo?
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