Ken Loach: 44 anni di cinema senza mai perdere l’indignazione

Sorry we missed you

Ebbene sì, a quasi 75 anni, il signor Ken Loach ancora s’indigna. E lo dimostra col suo ultimo film L’altra verità – Route Irish, da mercoledì scorso nelle sale italiane, in concorso a Cannes 2010, in cui affronta uno dei temi più controversi della nostra attualità: la guerra in Iraq.

 

E lo fa adottando un punto di vista vicino a chi la guerra l’ha subìta, senza esserne minimamente responsabile, ossia le vittime civili irachene. Il regista ha infatti affermato che questa guerra viene vista troppo spesso come una tragedia americana, mentre non è affatto così: “volevamo avvicinare la gente alle sensazioni del popolo iracheno: milioni di morti, quella è la tragedia”.

Ken Loach, filmografia

Ma ciò che intende fare con questo film, oltre a far luce sul fenomeno dei “contractors”, che ha portato alla “privatizzazione di fatto” della guerra, è anche suscitare la reazione del pubblico di fronte all’atteggiamento delle potenze occidentali in merito a ciò che è accaduto in Iraq – al fatto, ad esempio, che si sia praticata la tortura. Un atteggiamento di accettazione, di chi invita ad andare avanti, magari dimenticando. Lo ha detto senza mezzi termini il regista di Nuneaton, presentando il film a Cannes: “lo hanno fatto nel nostro nome, e coloro che reputano accettabile tutto ciò, i vari Blair, Bush e gli altri, sono ancora lì. Inoltre Blair, con grandissima ironia, è stato nominato Ambasciatore di pace in Medio Oriente (…) Quindi, se non possiamo farli giudicare da una corte di giustizia, dobbiamo almeno farli giudicare dall’opinione pubblica”. Perciò, obiettivo del film è “mantenere vivo il senso d’ingiustizia” rispetto ai crimini commessi in questa guerra.

Potremmo citare altre sue dichiarazioni – dalle prese di posizione nei confronti d’Israele, alla provocatoria definizione della Gran Bretagna come una “colonia culturale degli Stati Uniti” – ma ce n’è già abbastanza per farsi un’idea di chi sia Ken Loach e del suo cinema. Un cinema che pone domande, che scuote, che non lascia mai indifferenti e spinge a reagire di fronte alle ingiustizie e ai soprusi. Un cinema coraggioso e politico nel senso più ampio del termine, che gli è valso prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Dal 1963 ad oggi, il regista, nato nel Warwickshire il 17 giugno del ’36, ha portato la sua denuncia sociale prima in tv, lavorando per la BBC assieme al produttore Tony Garnett, e innovando fortemente nei primi anni ’60 gli schemi televisivi, con i suoi docu-dramas, poi sul grande schermo.

Qui, dal 1967, si è dedicato al racconto del mondo operaio, che fa parte delle sue origini, ma ha saputo fotografare bene anche la borghesia inglese con pellicole come Family life (1971). La sua fama resta però indubbiamente legata alla produzione degli anni ’90, con pellicole come Terra e libertà, sulla guerra civile spagnola, e altre, dove torna a parlare del proletariato britannico, realtà da lui ben conosciuta. Così fa in Riff Raff, dove si scaglia con forza contro le politiche tatcheriane, o con la storia dell’ex alcolista Joe, o coi ferrovieri di Paul, Mick e gli altri, fino al più recente Il mio amico Eric. E in questa realtà marginalizzata include anche i nuovi poveri, gli ultimi arrivati nella scala sociale britannica, come in quella delle altre società occidentali: gli immigrati, costretti ai lavori più umili e spesso senza alcun diritto (Bread and roses, In questo mondo libero). Loach racconta la Storia, attraverso storie di persone ordinarie, cercando di capire e far capire i meccanismi secondo cui essa si muove, suggerendo strade di possibile cambiamento.

Sin dagli esordi cinematografici, con Poor Cow (1967) e Kes (1969), il regista mostra le sue doti, inaugurando l’indagine sulle condizioni esistenziali del proletariato britannico, che saprà dipingere sempre con efficace realismo: è attento e scrupoloso, ironico e tagliente, drammatico, ma non retorico. In questi suoi primi lavori, sceglie un approccio quasi documentaristico, per raccontare rispettivamente di una giovane donna e di un ragazzino ai margini della società, alle prese con continue sfortune, incontri sbagliati e vessazioni.

Nel ’71 esplorerà invece l’asfittico e tarpante universo borghese della sua Inghilterra, trattando in modo vivido e toccante il tema della malattia mentale, con Family life. Al centro, la vicenda umana della giovane Janice Baildon/Sandy Ratcliff, che non riesce a prendere in mano la propria vita ed è costretta dai genitori ad abbandonare amore, sogni e aspirazioni. Da tutto ciò fugge, scivolando lentamente ma inesorabilmente nella malattia mentale, che la condurrà in ospedale psichiatrico. A nulla valgono le insistenze della sorella Barbara, che, staccatasi dalla famiglia con cui è in aperto contrasto, inviterà più volte Janice a fare altrettanto. Loach pone domande e invita a riflettere sull’apparente normalità di una famiglia borghese, dietro cui si celano incomunicabilità e alienazione, ma anche su un apparato statale carente nell’affrontare il disagio sociale ed esistenziale. In seguito, il regista di Nuneaton torna a lavorare per la tv, dedicandosi solo di rado al cinema.

A inizio anni ’90, invece, il grande schermo è di nuovo una delle sue principali occupazioni. In questo decennio, e in quello successivo, la sua fama si consoliderà, facendolo entrare a pieno titolo tra i più grandi registi europei. Il decennio si apre con una pellicola d’impegno, componente irrinunciabile nel lavoro di Loach. Si tratta del thriller L’agenda nascosta, in cui il regista ci presenta l’annosa questione dell’IRA in Irlanda, da un punto di vista del tutto diverso da quello solitamente adottato. Ci parla, come farà spesso nel confrontarsi coi grandi temi storici, di verità nascoste, lati oscuri, responsabilità che non ricadono mai da una sola parte, come troppo spesso siamo portati a credere. Qui si tratta infatti di violazioni commesse dalle forze di polizia inglesi nei confronti di militanti irlandesi dell’IRA e dell’inchiesta che ne scaturisce; della morte di un avvocato americano, e della volontà di sua moglie di scoprirne il reale motivo. Abbiamo quindi – e le ritroveremo in molti film di Loach – delle storie personali dal forte valore emotivo, con un elevato potenziale di coinvolgimento, che sono l’occasione per mettere in moto una riflessione. La pellicola ottiene il Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes.

Loach continua poi la sua indagine sulle problematiche della società britannica, e in particolar modo delle sue classi meno agiate, e lo fa con Riff, raff, in cui, attraverso le vicende di Steve/Robert Carlyle, ex galeotto che trova lavoro come operaio edile, punta il dito contro le politiche tatcheriane disinvoltamente liberiste, che lasciano le classi lavoratrici senza i più elementari diritti (emblematico il fatto che i protagonisti lavorino per trasformare un ex ospedale in un condominio di lusso). La vita di cantiere è dipinta con la consueta precisione e realismo. Accanto a Carlyle, che Loach sceglierà anche per La canzone di Carla, troviamo Peter Mullan, futuro protagonista del fortunato My name is Joe.

Per non farsi mancare nulla e tratteggiare un quadro completo della marginalità sociale inglese, Loach firma nel ’94 il commovente Ladybird, Ladybird, ritratto di Maggie/Crissy Rock, madre cui viene tolta la custodia di quattro figli, perché inadatta a crescerli, e poi ancora di altri due, avuti con un compagno assieme al quale cercava di rifarsi una vita. Il film è tratto da una storia vera, e non vuole certamente difendere ad ogni costo Maggie, che viene mostrata senza ipocrisie, in un ritratto fatto di luci e ombre. Piuttosto, ancora una volta, vuole restituire una visione complessa della realtà, mostrandoci un punto di vista che ci spinga a interrogarci sul tema dell’affidamento. Orso d’oro a Berlino per la Rock come Miglior Attrice.

Torna poi alle grandi vicende della Storia, raccontate però sempre dal basso, a partire dalla gente comune, con Terra e libertà (1995). In questo caso si parla della guerra civile spagnola del ’36, e di un giovane di Liverpool, David/Ian Hart, che parte per andare a combattere contro le truppe di Franco, a fianco del Partido Obrero de Unidad Marxista. Passerà attraverso l’ardore idealista degli inizi, sperimenterà difficoltà, vivrà anche una storia d’amore con Blanca/Rosana Pastor, militante del Poum, insieme si scontreranno con la disillusione di un triste epilogo. La disgregazione e le lotte interne al fronte d’opposizione contro Franco porteranno infatti allo scioglimento del Poum e lasceranno la strada aperta alla dittatura. Quando gli verrà intimato di deporre le armi e alcuni suoi compagni si rifiuteranno, a farne le spese sarà proprio Blanca, che morirà tra le braccia di David. Anche qui, c’è passione politica, c’è dramma, ma la crudezza e l’autenticità salvano dalla retorica. Il film ottiene il Premio della Giuria ecumenica al Festival di Cannes.

Loach non rinuncia poi a parlarci della guerriglia controrivoluzionaria dei Contras nel Nicaragua sandinista, scegliendo come protagonista di nuovo Robert Carlyle. Il film è La canzone di Carla. Siamo nel 1987 e questo racconto in due parti esplora da un lato, la realtà britannica – la prima parte del film è infatti ambientata a Glasgow – dall’altro, quella nicaraguense, poco conosciuta in Europa. Occasione per fare ciò, è una vicenda umana delle più semplici, e si direbbe banali: la storia d’amore tra l’operaio di Glasgow George Lennox/Robert Carlyle e la nicaraguense Carla, giunta in Scozia da rifugiata. Il film inaugura la lunga e fruttuosa collaborazione tra Loach e lo sceneggiatore Paul Laverty.

Nel ‘98 i due collaboreranno ancora, stavolta per tornare ad occuparsi esclusivamente di Regno Unito, con My name is Joe, storia di un ex alcolista che cerca di rifarsi una vita, ottimamente interpretato da Peter Mullan, che è premiato con la Palma d’Oro a Cannes. Ancora vite ai margini in cerca di riscatto e di giustizia, come sarà anche nel successivo Bread and roses (2000), che affronta il tema delle rivendicazioni di diritti civili da parte degli immigrati. Stavolta, però, Loach va in trasferta negli Usa, dove l’immigrazione è quella messicana. La protagonista, Maya, lotterà per i suoi diritti di lavoratrice, vedendoli riconosciuti. E di rivendicazione di diritti, stavolta da parte di un gruppo di ferrovieri inglesi in cassa integrazione, si parla in Paul, Mick e gli altri (2001), a sottolineare che, anche dopo l’era Tatcher – il film è ambientato negli anni Novanta, durante il governo di Major – le prospettive per la classe lavoratrice inglese non sono certo rosee. Loach sarà molto critico anche nei confronti del nuovo corso laburista, inaugurato da Blair, e sosterrà il movimento Respect, a sinistra del nuovo Partito Laburista.

Nel 2002, sarà tra i registi che realizzeranno corti sul tema dell’11 settembre 2001, e anche in questo caso lo farà in maniera del tutto peculiare, volgendo ancora una volta lo sguardo dove lo spettatore non si aspetta. Partendo infatti dalla data dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, il regista britannico ricorderà un altro 11 settembre, quello del 1973, che vide in Cile il golpe di Pinochet e la morte del Presidente Allende, il sovvertimento dell’ordine democratico e l’instaurarsi di una dittatura che avrebbe portato a migliaia di morti innocenti e di persone torturate, sotto gli occhi di tutto il mondo occidentale, Usa compresi, che non fecero nulla per fermare Pinochet, e anzi lo considerarono interlocutore degno delle loro diplomazie. Anche qui, dunque, la prospettiva adottata fa sorgere vari quesiti: esistono vittime di serie A e vittime di serie B? Attentati alla democrazia di fronte ai quali è giusto indignarsi e altri verso i quali è opportuno restare indifferenti? Loach solleva la questione, allo spettatore il compito di farsi un’opinione in merito.

Il 2006 sarà invece l’anno che porterà al regista inglese la Palma d’Oro al Festival di Cannes, che ancora una volta dimostrerà grande apprezzamento nei confronti di questo arguto cineasta. Lo farà premiando Il vento che accarezza l’erba, in cui si riapre una delle pagine più dure della storia britannica: la guerra civile che dilaniò l’Irlanda negli anni ’20. Da una parte l’esercito inglese che vuole reprimere ogni residua volontà indipendentista in Irlanda, dall’altra il popolo irlandese, che si dividerà a sua volta tra chi accetterà un trattato che pone fine alle ostilità con gli inglesi e chi vi si opporrà, considerandolo un mero opportunismo. Ancora una volta, una guerra fratricida, inutile, anzi, dalle conseguenze disastrose. Loach ce la fa vivere attraverso le vicende di una famiglia irlandese, che si troverà su fronti opposti delle barricate. Sceneggiatura curata dall’ormai immancabile Paul Laverty, e massimo riconoscimento a Cannes per il film.

L’anno successivo, Loach e Laverty torneranno invece alla stretta contemporaneità e al mondo del lavoro, occupandosi della sua precarizzazione, di liberalizzazione e competizione selvagge. In questo contesto, Angie, la protagonista di In questo mondo libero, licenziata, si fa imprenditrice di una ditta di collocamento per immigrati e finirà per trattare le persone che le si rivolgono come fossero una merce. Loach torna dunque all’attualità, evidenziando i guasti prodotti nelle società occidentali dal liberismo selvaggio. C’è chi ha definito cinico il suo approccio in questa pellicola, ma a tale osservazione il regista di Nuneaton ha risposto rivendicando una necessità di realismo, che faccia comprendere il reale funzionamento dei meccanismi delle nostre società, come presupposto di un possibile cambiamento. Laverty si è guadagnato con questo lavoro l’Osella d’Oro per la sceneggiatura al Festival del Cinema di Venezia 2007.

Ancora una storia ai margini della working class britannica è quella di Il mio amico Eric (2009), sempre in collaborazione con Laverty. Eric è un uomo la cui esistenza è allo sbando, ma mentre sta andando alla deriva, sarà soccorso dal suo idolo, qui una sorta di angelo custode: Eric Cantona, calciatore del Manchester. Il film unisce toni leggeri e drammatici, e sperimenta elementi surreali, riuscendo ancora una volta a catturare il pubblico, anche trattando temi non facili. Premiato a Cannes dalla Giuria Ecumenica.

Siamo così ad oggi. Nel 2010 infatti, la premiata ditta Loach-Laverty torna ad occuparsi di questioni internazionali e di Storia, affrontando, da inglese, il tema della guerra in Iraq. E lo fa, come detto in apertura, con L’altra verità – Route Irish, affidando il ruolo del protagonista a Mark Womack, noto attore televisivo inglese al suo debutto cinematografico. Womack interpreta un ex contractor il cui miglior amico, contractor anch’egli, muore in circostanze poco chiare sulla tristemente nota strada di Baghdad. Qui, si mettono a nudo aspetti spesso taciuti di questo recente conflitto, ma indispensabili per comprenderlo, proprio perché, come ha affermato lo stesso Loach, il cinema ci aiuta a fare ciò che tutti dovremmo fare, essendo nel mondo: cercare di capirlo. E può talora suggerirci strade da percorrere, se ne vogliamo ottenere il mutamento. Se vi state chiedendo dove sia, allora, la differenza tra cinema e politica, beh, la risposta, con la consueta ironia, la dà lo stesso Ken, ricordando un vecchio slogan della sinistra americana: “scuotere (agitate), istruire (educate), organizzare (organize). I film possono scuotere un po’, non possono realmente istruire e neppure organizzare. Quindi, fateci fare ciò che possiamo, cioè scuotere, ma una volta che siete usciti dal cinema, per l’amor di Dio, organizzatevi!

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