A prima vista La zona di interesse di Jonathan Glazer e Norimberga di James Vanderbilt sembrano due film molto diversi: il primo è un’opera astratta, disturbante, quasi anti-narrativa; il secondo è un dramma storico classico, costruito attorno a un processo e alla relazione tra uno psicologo e un gerarca nazista. Eppure, nella loro distanza stilistica, questi due film finiscono per incontrarsi su un terreno comune e profondissimo: quello della “banalità del male”, il concetto espresso da Hannah Arendt per spiegare come l’orrore possa nascere non da mostri sovrumani ma da esseri umani ordinari, ambiziosi, vanitosi, incapaci o non disposti a riconoscere i limiti morali della propria azione.
Nel film di Glazer questo concetto assume una forma radicale. La zona di interesse racconta la vita quotidiana della famiglia Höss, che vive in una villetta curata e luminosa, separata solo da un muro di pietra dal campo di sterminio di Auschwitz, diretto da Rudolf Höss stesso. Il film evita accuratamente di mostrare direttamente l’orrore: lo si ascolta, lo si intuisce, lo si percepisce nelle urla e nei rumori di fondo, nelle ceneri che ricadono sull’erba del giardino, nel fumo che sale oltre il muro. L’attenzione della macchina da presa si concentra sulla routine, sugli abiti, sulle feste di compleanno, sulla gestione della casa, sulla normalità disarmante di una famiglia che vive accanto al genocidio senza porsi domande.
È proprio in questa scelta narrativa, quasi glaciale, che si manifesta la banalità del male: non come esplosione improvvisa, ma come qualcosa che può coesistere con un picnic, con il sorriso dei bambini, con il lavoro in giardino. Glazer non mostra l’orrore: mostra l’indifferenza che permette l’orrore. Un’indifferenza che nasce dalla disumanizzazione dell’altro e dalla convinzione che il proprio ruolo sociale esista al di sopra di ogni giudizio morale.

Norimberga di Vanderbilt, invece, affronta il tema da un’altra angolazione. Il cuore del film è la relazione tra Hermann Göring e lo psichiatra dell’esercito americano Douglas Kelley. Vanderbilt mostra come, durante gli interrogatori, Kelley si renda conto che Göring non è un demone né un folle, ma un uomo colto, estremamente intelligente, manipolatore, dotato di straordinaria presenza scenica e soprattutto di un ego smisurato. Ciò che emerge dai loro dialoghi è che il potere, quando diventa metro unico della realtà, può spingere un individuo a giustificare qualsiasi atrocità pur di preservare la propria visione del mondo.
Anche qui la banalità del male prende forma: Göring non appare come un archetipo del male assoluto, ma come un narcisista radicale, convinto che la grandezza propria e del Reich giustificasse tutto. Vanderbilt non assolve né umanizza ingenuamente: mostra invece che gli artefici dell’orrore non sono mostri distanti da noi, ma esseri umani in cui tratti comuni – ambizione, vanità, spirito di appartenenza, desiderio di controllo – sono stati portati all’estremo e liberati da ogni freno morale.
In La zona di interesse la banalità del male affiora nel quotidiano che scorre accanto al massacro; in Norimberga emerge attraverso l’analisi psicologica di un uomo che ha usato la sua intelligenza per perpetrare crimini inconcepibili. I due film, insieme, ricordano che il male non nasce dal sovrannaturale: nasce dall’uomo, dalla sua capacità di ignorare, giustificare o razionalizzare la sofferenza altrui. Ed è per questo che entrambi restano profondamente necessari.
