Fellini era solito affermare che «il visionario è l’unico vero realista». Dunque, se questa regola vale ancora, sicuramente nessuno può essere considerato tanto visionario e fantastico quanto Peter Greenaway, un autore i qui sogni e le cui fantasie si sono convertite più volte, apparentemente senza alcun limite, in celluloide e nelle molteplici forme di rappresentazione. Regista gallese con alle spalle una solida cultura artistica, Greenaway è considerato, assieme al conterraneo Ken Russell uno dei massimi esponenti del nuovo rinascimento inglese, corrente artistico-cinematografica che a partire dagli anni ’80 ebbe modo di rivoluzionare l’intero comparto della cultura visiva britannica e mondiale. Greenaway è uno di quegli autori che si possono definire formalisti, ovvero imbevuti a tal punto di una maniacale cura per l’attenzione estetica da rendere le loro opere come dei veri e propri ibridi fra cinema,pittura e videoarte.
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Molte sono ossessioni che Greenaway riversa nel suo cinema, e tra di esse si possono riscontrare la catalogazione (ereditata dai genitori, entrambi entomologi), il gusto quasi eccessivo per il cromatismo, l’utilizzo di immagini costruite pittoricamente, la predilezione artistica per il corpo e per i nudi, l’acqua ed il cibo, senza poi dimenticare la presenza di sviluppi narrativi al limite del grottesco e del surreale, storie sempre sull’orlo dell’eccesso, ma allo stesso tempo ricche (visivamente e narrativamente) di richiami extra-culturali provenienti dalla letteratura e dall’iconografia. Le sue sono opera bulimiche, piene zeppe di particolari su cui l’occhio indugia a lungo, ed il suo cinema non può essere risolto ad una prima e distratta visione, ma deve essere frutto di numerose rivisitazioni per poter cogliere i vali livelli di stratificazione narrativa, oltre a prendere coscienza che ogni suo film, ogni suo lavoro è incommensurabilmente collegato a tutti gli altri, in una sorta di concezione ipertestuale di cinema totoale.
Dopo la formazione
accademica, Grennaway si fa le ossa come montatore di documentari
al celebre BFI (British Film Intitute) dove ha modo di
coltivare il suo gusto per la catalogazione e sperimentare le prime
forme di cortometraggio. L’esordio sul grande schermo arriva a 42
anni (numero che per Greenaway, legato alle coincidenze, avrà
sempre un fascino particolare) quando, dopo l’incontro con il
futuro produttore Kees Kasander, nel 1982 realizza I
misteri del giardino di Compton House, opera incentrata sul
tema dei segreti che il disegno può svelare, dove già si nota
l’impostazione pittorica dell’immagine. Nel 1985 segue il surreale
Lo zoo di Venere, opera eclettica e grottesca
ispirata dai quadri di René Magritte e di Vermeer, dove la
composizione figurativa è bilanciata da una narrazione bizzarra,
sorretta anche dallo storico sodalizio con il compositore
minimalista Michael Nyman e il direttore della fotografia
Sacha Vierny. Lo stesso gruppo di collaboratori firma
successivamente nel 1987 Il ventre dell’architetto
(dove il regista sviluppa il suo amore per l’architettura di
E.l.Boullée e la città di Roma) e nel 1988 Giochi
nell’acqua (opera scanzonata e intermante basata sul tema
del liquido e del gioco infantile).
Nel 1989 è la volta
della sua pellicola più famosa, Il cuoco, il ladro, sua
moglie e l’amante, storia grottesca di sesso e cannibalismo
ispirata dall’opera Titus Andronicus di Shakespeare e
impreziosita da un’estetica folgorante (grazie ai costumi di
J.P.Gaultier) e dalle interpretazioni allucinate di
Michael Gambon, Helen Mirren e Tim Roth. Nel 1991
avviene la grande svolta con la trasposizione del celebre dramma
shakesperiano La tempesta, dove Greemaway incomincia
ad allontanarsi dal concetto tradizionale di cinema per
sperimentare alcune soluzioni tecniche e visive che renderanno il
suo lavoro sempre più vicino alla videoarte e che saranno alla base
dei grandi lavori visionari del futuro. Nel 1993 è la volta del
contestatissimo Il bambino di Macon, un’opera in
costume intrisa di religiosità e di un morboso gusto per l’orrido,
dove il regista sperimenta il connubio fra cinema e
rappresentazione teatrale, suscitando però numerose polemiche.
Nel 1995 avviene
un’ulteriore progresso con I racconti del cuscino,
dove il gusto per l’oriente e la calligrafia si mescolano a
soluzioni registiche innovative ed inusuali (ad esempio la camera a
mano), con risvolti visivi e narrativi che hanno eco nei videoclip
musicali. Agli albori del nuovo millennio però ecco il clamoroso
passo falso del maestro gallese, che con 8 donne e ½
crede di realizzare un visionario e personale omaggio al mentore
Fellini, ma al contrario partorisce un’opera obrobriosa e al limite
del ridicolo, totalmente sconclusionata e che gli costa la sonora
irritazione dei suoi affezionati. Tra il 2003 e il 2004, ormai
persuaso che il cinema classico sia destinato ad estinguersi,
Grennaway da il via all’ambizioso progetto de Le valige di
Tulse Luper, una trilogia dove cinema, arte pittorica e
virtuale si mischiano in un’esperienza visivamente e tecnicamente
coinvolgente, che ha tutte le caratteristiche di un’istallazione.
Il prodotto però, a causa del suo eclettismo e degli alti costi di
realizzazione, non viene ben digerito dal pubblico, decretandosi
come un insuccesso commerciale.
A questo punto, dopo numerose esposizioni e progetti di
commistione artistica (come la celebre animazione de Il
cenacolo di Leonardo), Greenaway inizia la sua nuova
trilogia dedicata ai pittori europei, inaugurata nel 2007 con
Nightwatching (opera dal gusto teatrale dedicata a
Rebrandt), proseguita nel 2012 con Goltzius and the
Pelican Company (manierismo visivo basato sull’incisore
olandese H.Goltzius) e in procinto di concludersi in futuro
con un nuovo progetto dedicato ad H.Bosch.
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La fama e il grande contributo artistico di Greenaway, il suo modo rivoluzionario di intendere le arti visive e soprattutto la sua inesauribile capacità sperimentale lo hanno reso degno di ricevere dalla prestigiosa British Academy of Film and Television Arts (BAFTA) durante la cerimonia del 16 frebbraio 2014, il riconoscimento per il miglior contributo cinematografico britannico. Un onore che spetta appieno ad grande genio visionario che mai si è stancato di affermare che, per fare del buon cinema, «bisogna sempre fidarsi dell’opera, mai del suo autore». Un maestro,un artista,un sognatore. Tutto questo è Peter Greenaway, un profeta che ha saputo vedere il futuro del cinema e che cerca di spianare la strada per quello che esso diverrà.