La poesia di Lee Chang-Dong

poetry

 

Sarà nelle sale dal 1 Aprile prossimo il nuovo film del regista coreano Lee Chang-Dong, Poetry. Nella conferenza stampa di mercoledì 30 marzo, svoltasi presso la Casa del Cinema, a seguito della proiezione per gli addetti ai lavori, il regista ha chiarito i suoi intenti e fatto luce in parte su alcuni punti, volutamente oscuri, della trama.

La pellicola, ambientata in Corea del Sud, racconta le vicende di Mija, anziana donna divisa tra la cura del nipote liceale e la passione per la poesia, che dovrà affrontare prove difficili come l’insorgere di una malattia degenerativa e la scoperta di un terribile crimine (una violenza) commesso dal nipote assieme ad alcuni amici. Il regista, intervenuto all’evento assieme a un rappresentante della Tucker Film – distributrice italiana della pellicola, che uscirà nel nostro paese in 30 copie – dopo aver ringraziato i presenti per l’attenzione, nonostante la lunghezza del film, non proprio trascurabile, risponde di buon grado alle domande dei giornalisti.

A chi chiede se la violenza sia un fenomeno particolarmente radicato nella società coreana, così come la disgregazione all’interno delle famiglie, o la scelta di questi temi sia stata casuale, i regista parla di casualità, aggiungendo che è possibile riscontrare tali problematiche anche in altri paesi. E specifica: “ho voluto rappresentare la differenza tra le generazioni e l’incomunicabilità tra esse. Devo ammette che è difficile capire cosa pensino i ragazzi delle nuove generazioni”. E questo è un tema che tocca il regista anche personalmente. Della sua esperienza di padre infatti dice: “Guardando mio figlio mi è capitato spesso di domandarmi cosa pensasse. Anche Mija si sarà chiesta chi fosse quel nipote che presto avrebbe lasciato, se nascondesse in sé un mostro”. Sulla scelta di inserire questa donna nel gruppo dei genitori (uomini) dei ragazzi coinvolti, il regista afferma di aver voluto introdurre un elemento di bellezza, d’istinto, ma anche di razionalità, e uno sguardo più sensibile di fronte alla violenza, proprio perché femminile.

Sul ruolo della parola, che nella società attuale sembra non più funzionale a creare un rapporto autentico tra gli individui, e su come questo tema sia trattato nel film, Chang-Dong commenta: “Noi ci diciamo tante parole nella vita, ma la poesia sta morendo. Volevo raccontare con questo film cosa fosse la poesia nella vita, ovvero la ricerca della bellezza invisibile ai nostri occhi, delle verità nascoste, ma sulle quali farsi delle domande. Mi sono anche arrivate molte critiche quando ho scelto il titolo”.

Per quanto riguarda, poi, il senso ultimo da dare al film – se sia un senso di resa a prevalere, dal momento che Mija sembra rinunciare a risolvere il mistero della violenza, consegnando il nipote alla giustizia – la domanda dà al regista l’opportunità di spiegare l’approccio usato nel film e il suo intento. Parla di sospensione della storia, di intuizione di ciò che forse può essere accaduto, ma che volutamente non è esplicitato, e fa riferimento ai morality plays medievali, in cui, date certe premesse, l’azione si può sviluppare in più modi e, a seconda di quello scelto, ci sono conseguenze diverse. Nel film, dice, “ho voluto lasciare un vuoto, in modo che ciascuno possa interpretare come vuole”, “ho dato tanti indizi”, pur senza mai dire chiaramente come sono andate le cose. Quello della pellicola infatti “è un finale aperto”. E sulla poesia che chiude il film, con la protagonista che scompare, fisicamente prima e “vocalmente” poi, chiarisce: “Alla fine del film, nella poesia recitata, la voce cambia, Mija è riuscita a scrivere solo dopo aver vissuto la sofferenza altrui, cioè quella della ragazza. In quella poesia esprime ciò che avrebbe voluto dire la ragazza morta, come se il loro destino fosse un unico destino”. E a proposito di poesia, a chi gli domanda perché spesso chi ne scrive provi vergogna ad ammetterlo, Chang-Dong risponde di non capire a quale vergogna si faccia riferimento, pur avendo egli stesso iniziato a scrivere fin da adolescente, piuttosto, prosegue, “sempre chiedendomi se quello che scrivevo potesse interessare e servire a cambiare le cose intorno a me. Ancora oggi me lo chiedo. In Corea negli anni ‘80 c’era il governo militare, e spesso mi sono sentito inutile scrivendo, non potendo cambiare la realtà. Ma scrivere è comunque, sempre cercare la bellezza interna di ogni cosa, e nel film ho voluto parlare anche di questo”.

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