“Il nostro scopo era di realizzare Indiana Jones dentro una cassa“. Rodrigo Cortes definisce così il pensiero che è stato dietro la volontà di realizzare “Buried”, tratto da una sceneggiatura che stava girando da molto tempo di mano in mano negli studios di Hollywood ma che nessuno pensava fosse possibile realizzare.
Proprio da questa sfida, realizzare un film d’azione in un unico ambiente e oltretutto claustrofobico, parte l’avventura americana del regista spagnolo, vincitore di diversi premi con i suoi cortometraggi e forte di un grosso successo ottenuto al Sundance Film Festival all’inizio di quest’anno, dove il film è stato presentato per la prima volta.
La storia del contractor americano, autista di camion in Iraq, che viene sequestrato e sepolto in una cassa sotto la sabbia, non è una denuncia contro la guerra e le sue conseguenze su persone che non c’entrano con volontà più grandi di loro, nonostante molte delle battute e il senso generico della storia lo portino a pensare.
“Non si tratta di un film profondo, non vuole essere una presa di posizione, non credo neanche di averla. Vuole essere solo un film d’azione, il bello del cinema è che sotto la superficie, anche di un film come questo, ci possono essere metafore che ognuno interpreta come vuole“, dice il regista , durante la conferenza stampa che si è tenuta oggi alla Casa del cinema di Roma.
Ovviamente il film è stato una sfida sia sul piano tecnico, sono state create 7 diverse casse con caratteristiche tali da permettere alla macchina da presa di girarci intorno, effettuare dei carrelli, e quindi rendere movimentato indirettamente un ambiente che per cause di forza maggiore non poteva esserlo, sia sul piano attoriale. Il primo riferimento, che, complice l’ambientazione, viene alla mente è quello di Uma Thurman nella bara in Kill Bill parte 2 o nell’episodio di Csi Las Vegas diretto sempre da Quentin Tarantino, ma da questo paragone Cortes si libera facilmente dicendo che in un caso la scena dura solo 6 minuti,e nell’altro, lo scopo del film era non risalire mai in superficie. Più che altro dice di aver cercato di ricreare la magia di Hitchcock “che lo ha fatto prima e lo ha fatto meglio” riuscendo a mantenere la tensione alta in film realizzati con pianisequenza lunghi quanto un rullo di pellicola, come in “Nodo alla gola”, o in un ambiente unico come in “Prigionieri dell’oceano“.
Il fatto che il film non perda mai di tensione e che anzi alterni momenti molto intensi a slanci quasi comici è dovuto alla scrittura equilibrata di Chris Sparling, a cui il regista riconosce molti meriti, tra cui quello di aver sottolineato come, avendo a disposizione il mezzo di comunicazione per eccellenza, un cellulare, e potendo chiamare per chiedere aiuto, il protagonista si scontri invece con l’indifferenza umana, in cui l’altro rappresenta essenzialmente un problema da passare al più presto nelle mani di un altro.
Il regista insiste poi sul fatto che il film sia strutturato come una commedia, una di quelle in cui la legge di Murphy ha un ruolo essenziale, e per cui se qualcosa di peggiore (anche se, peggiore di essere sepolto vivo in Iraq, insomma, è dura) può succedere al protagonista, in effetti accade, fosse solo la richiesta del codice di assistenza sanitaria fatta da uno dei vari burocrati a cui il protagonista chiede aiuto telefonicamente. Ryan Reynolds inizialmente aveva rifiutato il ruolo, ritornando poi sui suoi passi una volta visto il primo lungometraggio di Cortes, il quale dice di aver trovato immediatamente un intesa con lui. Le riprese del film sono state ultimate (complice probabilmente l’essenzialità del set) in soli 17 giorni, al termine dei quali l’attore aveva sabbia in ogni dove e le dita bruciate dall’accendino (uno dei comprimari del film). Oltretutto, per aiutare la claustrofobia di cui soffriva Reynolds, l’imperfetto è d’obbligo perchè dopo questo film sicuramente se ne sarà curato, l’ultimo giorno di riprese, in cui il protagonista è dovuto rimanere per diverse ore quasi del tutto sommerso dalla sabbia nella cassa, era presente un’ambulanza, quasi a rassicurarlo del fatto che non sarebbe uscito vivo da quella scena. Insomma, anche Scarlett Johanssonn, moglie da due anni di Ryan Reynolds, se l’è vista brutta.