Richard Gere presenta Franny a Roma

Richard Gere, star del film Franny, presenta a Roma la sua ultima fatica, diretta dall’esordiente Andrew Renzi al suo primo lungometraggio.

 

Il film uscirà il prossimo 23 Dicembre in Italia in 150 copie.

Richard Gere2Gere, disponibile e affabile, sempre con il sorriso sulle labbra, risponde prontamente ad ogni domanda, a partire dalla prima: perché negli ultimi periodi della sua carriera predilige delle scelte così difficili a livello interpretativo?

La sua replica è che, proprio quando le scelte sono più difficili, più sono divertenti! A parte questo, in realtà ha sempre dimostrato di prediligere le produzioni indipendenti: ne è un esempio il suo prossimo film (Oppenheimer Strategies), un altro low budget. Gere sceglie sempre storie complesse perché la vita è così, e di conseguenza lo è ogni personaggio: niente è così come sembra, lineare, magari solo in superficie, ma scavando emergono delle difficoltà.

In entrambi i film (il suo riferimento è all’ultimo Time Out Of Mind, pellicola sugli homeless newyorkesi sul quale ha investito ben dodici anni per le riprese) interpreta due uomini senza lavoro, molto simili tra loro.

La domanda successiva è completamente slegata dal film, e riguarda l’impegno sociale di Gere per quanto riguarda gli affari della sua America: dopo il massacro di San Bernardino, qual è la sua opinione riguardo alle posizioni adottate dagli americani a caldo, subito dopo la strage?

Dopo un massacro come quello avvenuto – commenta Gere tornando improvvisamente serio- si è riflettuto molto sul discorso della disponibilità delle armi negli States: ma invece di porre un limite al fenomeno, c’è stato un incremento delle vendite. In realtà – ribadisce l’attore – dovremo scavare a fondo, scavare nelle cause e capire il perché di certi comportamenti, e che in tal caso devono essere fermati: ma è inutile incrementare lo spirito di vendetta, la presenza dei vigilanti privati etc. per le strade; piuttosto bisognerebbe insistere sulla saggezza, sull’atteggiamento giusto da adottare nei confronti di queste situazioni.

Un’altra domanda invece riporta l’intera sala alle atmosfere del filma: cos’ha modificato della sceneggiatura di Andrew Renzi? E soprattutto, quale dei tanti Franny (titolo del film, ma anche nome del protagonista) è stato difficile da interpretare?

Sicuramente l’attore non ha mai lavorato su un film dove la sceneggiatura è rimasta invariata dalla fase di scrittura a quella della realizzazione effettiva: entrano in gioco sensibilità diverse nel momento di girare. Si discute sempre con i produttori su come girare, sui costi e sulle dinamiche e tutto questo prima della fase di montaggio, dove ci sono ulteriori modifiche. Anzi, spesso è il produttore stesso a mettere uno “stop” ai cambiamenti, distribuendo il film in sala.

Questa pellicola poteva essere girata in modo totalmente diverso: poteva prendere la piega dello stalking, o riflettere sulla dipendenza dai farmaci di Franny: al contrario, invece, si è scelto di dare un taglio diverso, sfaccettato, arricchendolo con dell’umorismo, perché sostiene Gere che nella vita l’umorismo è sempre presente, soprattutto quello nero che subentra in tante situazioni nella vita, anche le più improbabili, o le più dolorose. Un elemento che aiuta lui stesso, in prima persona, nella sua esistenza.

Un altro elemento misterioso, che arricchisce la storia, è la sessualità del protagonista: è gay? È etero? Emergeva questo dopo le prime proiezioni di prova, ma si è deciso consensulamente di non dare delle etichette al personaggio, di non creare dei cliché banali.

Una domanda è strettamente legata al clima sul set, e al rapporto che si è creato col regista della pellicola, Andrew Renzi, che ha “immaginato” il personaggio di Franny: un esordiente in fondo, che aveva all’attivo già dei cortometraggi ma mai un lungometraggio così impegnativo ed ambizioso; avevano creato un rapporto di fiducia tra loro, ammette l’attore, e più parlavano più emergevano delle idee e il giovane regista si avvaleva della competenza- e dell’esperienza- di tutti coloro (come Gere, appunto) che, lì presenti sul set, avevano all’attivo già anni di lavoro nell’industria del cinema.

La fiducia reciproca che si è creata è aumentata quando l’attore ha capito che, dietro al progetto, c’era una storia valida, toccante, personale che Renzi voleva raccontare: gli è già capitato altre volte durante il suo lavoro d’attore di incappare in una situazione simile, ma soprattutto qui, hanno reso possibile che tutto (personaggio, casa, storia) fosse reale oltre ogni limite immaginabile.

Una curiosità investe Gere: Lavorerebbe mai in Italia, e con chi in caso di risposta affermativa?

Col suo sorriso, Gere ammette di essere aperto a lavorare in Italia; il “piacevole casino” che provochiamo (e che, ogni volta, lo induce a tornare qui nel Belpaese) lo attira profondamente: ci sono tanti elementi che si devono combinare per far sì che un film si realizzi; questo purtroppo non è ancora avvenuto, ma sarebbe bello- per esempio- prendere parte al prossimo film di Bernardo Bertolucci, ma ci sono tanti altri registi italiani con cui vorrebbe recitare.

Ma tornando a Franny, uno dei temi dominanti è quello dei sensi di colpa: lui ne prova, magari verso i colleghi che non sono stati così fortunati nel lavoro? E come li curerebbe, in tal caso?

Dopo l’iniziale reazione ironicamente stupita di Gere- e una delle sue risate sincere – la replica è: “c’è qualcuno qui che non si è mai sentito colpevole?” e, ridendo, continua dicendo che tutti i personaggi sono complessi, per cui è interessante capire bene le cause e le conseguenze, l’ambiguità di fondo che c’è in ogni situazione; se riuscissimo ad avere assoluta consapevolezza dell’imprinting che abbiamo fin dalla nascita – perché non nasciamo tabula rasa, secondo lui – capiremmo tante cose in più, ma sarebbe fin troppo facile; i personaggi sono sfaccettati e non esiste il bianco e il nero, marcati e manichei, tutto è relativo.

Quanto è difficile per questo tipo di pellicole, così simili alla vita, trovare una distribuzione commerciale, visto che sono così distanti dal livello mainstream delle ultime produzioni hollywoodiane?

La questione dei costi dei film è completamente differente tra gli USA e l’Italia – 6,7 miliardi di dollari, un low budget americano in media– e prevedono la possibilità di girare in poco tempo, dai 21 giorni (Franny) ai 31 giorni (Time Out of Mind); in questi contesti creativi non si perde di vista la recitazione, anzi, si mantiene una spontaneità recitativa unica perché si perde meno tempo dietro a inquadrature e tecnicismi vari, mantenendo una certa spontaneità e naturalezza; la sua disponibilità – come attore e uomo – è totale nei confronti di opere prima come queste, che poi possono avere il loro lancio sul mercato solo attraverso occasioni del genere.

Quanto c’è, nel personaggio di Franny, di Howard Hughes, chiedono curiosamente dalla sala?

C’è parecchio, come pure di Hemingway: ad esempio c’è una citazione, una scena specifica (nella vasca da bagno) all’interno del film dove si rifà esplicitamente allo scrittore americano, che alla fine della propria vita si è lasciato andare notevolmente; due personaggi che avevano delle personalità ambigue e non troppo limpide.

Nella parte finale della conferenza si torna a scavare nell’impegno di Gere e nel suo atteggiamento nei confronti del buddismo, del Dalai Lama e di come vedrebbe un incontro tra quest’ultimo e il Papa: un incontro su come aiutare il pianeta, sicuramente, rendendo questo posto in cui viviamo il più ospitale possibile, mettendo freno ad una follia dilagante che si sta impadronendo del pianeta, cercando di trovare delle soluzioni.

Ultimi momenti, ultima domanda: quale storia sta cercando in questo momento l’uomo/ attore Gere, quali sta letteralmente inseguendo e se magari si possono trovare più in tv che al cinema, viste le nuove opportunità delle piattaforme televisive statunitensi?

Commenta Gere che, fin dall’inizio della sua carriera non ha mai pianificato nulla, non si è mai posto degli obiettivi: ha scelto sempre per istinto senza mai avere un piano. I film che interpreta li sceglie perché lo colpiscono profondamente da vicino (e Time Out of Mind, al quale tiene molto, ne è un esempio) e poi invece ce ne sono altri dei quali si innamora alla lettera, così, perdutamente e in modo folgorante; a quel punto non vede l’ora di far parte di quel mondo, di condividere quell’universo e di passarci più tempo possibile. Ogni film che interpreta deve avere un contenuto d’umanità e rispettare le complessità della natura umana, anche se si tratta di commedie sentimentali con personaggi goffi: l’importante è che non diventino mai macchiette.

Per quanto riguarda il rapporto tra cinema e tv, l’attore confessa di essere più legato all’esperienza cinematografica della fruizione della pellicola, alla quale non rinuncerebbe mai; ma la tv americana (Sowtime, Starz, HBO, Netflix etc) ha dei prodotti di gran lunga migliori, con il rischio però che le storie complesse siano in futuro relegate a poche- e piccole- sale oppure alla tv; “siamo in un periodo di cambiamenti”, commenta seraficamente Richard Gere alla fine dell’incontro, e bisogna adattarsi ma la condivisione del piacere della proiezione di una pellicola sullo schermo cinematografico non ha paragoni.

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Ludovica Ottaviani
Ex bambina prodigio come Shirley Temple, col tempo si è guastata con la crescita e ha perso i boccoli biondi, sostituiti dall'immancabile pixie/ bob alternativo castano rossiccio. Ventiquattro anni, di cui una decina abbondanti passati a scrivere e ad imbrattare sudate carte. Collabora felicemente con Cinefilos.it dal 2011, facendo ciò che ama di più: parlare di cinema e assistere ai buffet delle anteprime. Passa senza sosta dal cinema, al teatro, alla narrativa. Logorroica, cinica ed ironica, continuerà a fare danni, almeno finché non si ritirerà su uno sperduto atollo della Florida a pescare aragoste, bere rum e fumare sigari come Hemingway, magari in compagnia di Michael Fassbender e Jake Gyllenhaal.