Oggi, al cinema Quattro Fontane di
Roma, è stato presentato alla stampa il nuovo film scritto,
prodotto e diretto da Uberto Pasolini,
Still life, con Eddie
Marsan e Joanne Froggatt. Il film, in
uscita nelle sale dal 12 dicembre, è stato prodotto dalla Redwave /
Embargo Films, in associazione con Rai Cinema e Cinecittà
Studios.
Alla conferenza stampa era presente il regista e Cecilia Valmarana di Rai Cinema.
UBERTO PASOLINI
D: Che significa anzitutto l’espressione Still life?
R: Vuole dire tante cose in realtà: un primo significato è quello di “vita ferma”, che sarebbe la vita del protagonista, almeno com’è all’inizio. Ma vuol dire anche “ancora vita” e “vita di fermo immagini”. L’espressione inglese poi vorrebbe dire “natura morta”, ma questo non vuole essere, non è un film sulla morte, bensì sulla vita e sul valore della vita.
D: Questo mestiere del protagonista esiste davvero?
R: Beh sì, è un mestiere che esiste in diverse forme. A Londra, che è divisa in vari comuni (“districts”, ndr), per ogni comune c’è una persona che si occupa di rintracciare i parenti delle persone defunte, morte in solitudine.
D: Come sei arrivato a questa storia?
R: Avevo letto un’intervista su un quotidiano di Londra e ho cominciato una ricerca. Sono andato al Funeral Office di Westminster, ho seguito le pratiche per 6 mesi e ho fatto varie visite a case e appartamenti dove delle persone erano morte da sole. Ho anche presenziato ad alcuni funerali, e spesso mi sono trovato da solo perché a volte chi si occupa di organizzare le esequie non ha il tempo per essere presente. Nel film quindi c’è poco di inventato – la storia iniziale della signora del gatto prende spunto da una storia vera di una donna che aveva vissuto in maniera normale fino ai 25 anni e poi, per qualche ragione, aveva vissuto il resto della sua breve vita da sola insieme al suo gatto.
Il protagonista è un solitario, un ossessivo, con una vita fatta di piccoli particolari, ed è molto simile ad alcuni dei personaggi che ho conosciuto a Londra: un personaggio che fa sì che le persone non siano dimenticate almeno nel momento della celebrazione. È una di quelle persone che si dedicano al ricordo della persona stessa.
D: Com’è, realmente, il rapporto che si crea con i famigliari dei defunti?
R: Per il 70 % delle volte non si trovano proprio i famigliari. Il 30 % dei rimanenti non vogliono neanche avere a che fare con le esequie, quasi mai. Diciamo che nel 90% dei casi non c’è nessuno al funerale. Questi impiegati comunali quindi, il più delle volte, sono gli unici presenti.
CECILIA VALMARANA
D: Com’è successo che
Rai Cinema abbia voluto supportare questo progetto?
R: All’inizio ci siamo un po’ spaventati per il tipo di storia
che Uberto voleva raccontare. Poi abbiamo riflettuto e abbiamo
pensato che dietro ogni suo film c’è sempre la necessità di
raccontare qualcosa: volevamo dare la possibilità di vedere
qualcosa di diverso dal solito.
UBERTO PASOLINI
D: Perché hai voluto affrontare un tema del genere?
R: Il film è stato anche una scusa, un’opportunità per raccontare e scoprire uno spaccato di vita sociale a me totalmente sconosciuto. Penso anche a film come “Full Monty” (di cui Pasolini è stato produttore, ndr): mi ricordo che mio padre mi disse che era il film più triste che avesse mai visto. E in effetti lo era, affrontava il problema della disoccupazione, qualcosa di lontano rispetto a me dato che io sono stato sempre un privilegiato, ho sempre lavorato e ho iniziato il mio precedente lavoro (il banchiere, ndr) anche grazie a delle conoscenze.
In Still life c’è una domanda di fondo: chi verrà al mio funerale? Il tema principale è dunque quello della solitudine e dell’isolamento, del conoscere il proprio vicinato, di avere un contatto con le persone che ci stanno intorno. I giovani di oggi, con le nuove tecnologie, vivono amicizie virtuali, su internet: queste sono fittizie, sono amicizie che si possono chiudere con un click quando si vuole. Nell’amicizia vera questo non succede: non si può porre una barriera e decidere da soli di chiudere un legame.
Inoltre, il film è anche una sorta di analisi personale di cosa voglia dire essere soli – io sono divorziato da poco, e sebbene veda spesso mia moglie e i miei figli, ci sono delle sere in cui torno a casa mia e la trovo vuota. Ecco, con questo film ho cercato di scoprire cosa si prova ad essere soli non solo 3-4 giorni alla settimana, ma esserlo quotidianamente, tutti i giorni.
D: Come ha diretto il protagonista?
R: Non so se avete notato che questo è un film dai toni bassi. Tutto lo è: la musica, che inizia solo ad un punto avanzato della storia, il colore, che è abbastanza spento e inizia a saturarsi man mano che John scopre il mondo; ma soprattutto ad essere sottotono è la recitazione del personaggio. Quando mi è venuta in mente l’idea di questo film, ho subito pensato a Eddie, perché è un attore che dà tanto facendo “pochissimo”. In realtà sembra stia facendo pochissimo, ha una recitazione molto contenuta ma al tempo stesso molto forte.
D: Si intravede qualche richiamo a L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski…è voluto?
R: No, non lo è. È un film che non vedo da molto tempo, se pure ci sono dei riferimenti non sono voluti ma casuali. Semmai nei miei film ci possono essere degli echi di Jasujiro Ozu: i suoi film sono tutti molto forti, mi hanno sempre colpito. Non è che io mi ispiri a lui, il suo è un mondo lontano dal mio, ma da lui ho forse ereditato la speranza di colpire lo spettatore con un certa grammatica cinematografica, con un tono e un volume bassi appunto, che a volte costringono qualcuno a guardare con più attenzione. E magari il film rimane nella mente per qualche ora, per qualche giorno in più…almeno lo spero.