Glaucocamaleo recensione del film di Luca Trevisani

Glaucocamaleo recensione 2Il progetto Glaucocamaleo prende il via da un famoso libro di Kurt Vonnegut del 1961, “Ghiaccio 9”, in cui, tra le altre cose, si narra la storia di uno scienziato, inventore del “ghiaccio-nove”: una microparticella in grado di cristallizzare e congelare istantaneamente l’acqua (portandone il punto di fusione a 114 °F) e potenzialmente in grado, con una reazione a catena, di propagare questa proprietà a tutta l’acqua del pianeta, rendendola solida, per contatto, con conseguenze catastrofiche per la vita.

 

Il disastro innescato nel libro è il blocco del ciclo dell’acqua, il passaggio di stato, la mobilità delle particelle. Ed è da qui che Glaucocamaleo inizia. L’uomo nasce, si sviluppa e muore in continua relazione con la natura. Da essa trae, in un continuo lavorio, risorse volte a soddisfare le proprie esigenze.

Nel film di Luca Trevisani però, qualcosa si è rotto. Una trasformazione inaspettata e repentina ha ghiacciato il mondo. In uno scenario così inospitale, la sola soluzione è un cambio di prospettiva. Abbandonando una visione antropocentrica e geocentrica della realtà, degli uomini realizzano che la risposta al disastro è da cercare altrove, nel sole, nella sua energia. Utilizzandone i raggi, l’uomo sblocca lo stallo in cui ha messo il mondo, condannandosi a negoziare un nuovo, instabile, equilibrio.

Glaucocamaleo recensione

Glaucocamaleo è un progetto molto ambizioso. All’interno della sezione a lui più adatta “CineMaxxi” dedicato al cinema innovativo e sperimentale che dialoga e soprattutto fa riferimento alle altre arti, le immagini ad alta definizione del ghiaccio, il fuoco, gli elementi che danno la vita e la morte, sono uno spettacolo a sé stante, dove la parola è di fatto superflua, ed infatti non c’è se non nel primo quarto d’ora, in cui la questione della sparizione umana viene discussa da due camerieri molto più colti di quanto il camice e il conseguente stereotipo farebbero pensare. Poi lo spazio è lasciato ad immagini e sensazioni, a panoramiche che fanno pensare agli spazi rappresentati da Godfrey Reggio nella trilogia iniziata con Koyanisqatsi e alcune sono estranianti via musica, suoni e interruzione della finzione, nel momento in cui entrano in campo i drone di cui il regista ha fatto ampio uso nella realizzazione del film, diventando un personaggio alieno che prende possesso della scena, sia con le sue soggettive che con i suoi suoni.

Un film studiato a tavolino e schematicamente, la voce narrante, Kary Mullis, scienziato premio Nobel per la chimica nel 1993 è stato scelto per le sue caratteristiche controverse. Lo scienziato infatti, che è anche un surfista senza tregua, ha più volte sostenuto che le sue scoperte sono state agevolate da un ampio uso di LSD, ha espresso grande scetticismo riguardo all’esistenza del riscaldamento globale così come ha affermato di essere stato rapito da esseri alieni.

La scelta di Kary Mullis, così come di ogni location e materiale impiegato nel film, è fondamentale. La sua figura è stata di fondamentale ispirazione e consequenziale ai significati generati dal film stesso: l’immagine di uno scienziato da sempre in grado di assecondare la propria curiosità e le proprie ossessioni, un prometeo contemporaneo che mette in discussione le gerarchie e i valori. Il film è stato introdotto da un cortometraggio dal titolo Thing, che indaga a suo modo un panorama simile: un mondo inesistente, in wireframe, a cui siamo arrivati non si sa con quale delle molte spinte distruttive. Anche il corto di Anouk DeClerq cerca un’entità aliena e molte delle immagini, desaturazioni di lunghe panoramiche urbane, sembrano paesaggi spaziali o alieni.

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