Il Buco, recensione del film di Michelangelo Frammartino

Il Buco film 2021

Nel 2007, quando il regista Michelangelo Frammartino stava girando in Calabria Le quattro volte, viene invitato dal sindaco per una visita nel Parco del Pollino e, nell’occasione, con grande fierezza il primo cittadino gli fa vedere l’Abisso del Bifurto. L’esperienza è così impressionante, da spingere Frammartino a farne un film, mosso dalla suggestione di quei luoghi primordiali, e dal suono senza fondo del baratro della grotta.

 

Perché è proprio attorno a questi punti che ruota la narrazione de Il Buco, presentato in Concorso alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica a Venezia. Il silenzio totalizzante, senza alcun tipo di scelta musicale, i dialoghi praticamente inesistenti, vengono fatti interrompere solo a tratti dal richiamo di un pastore verso il suo gregge, o dai fischi di speleologi che si calano tra le rocce, che risultano comunque essere parte di un codice proveniente da un mondo antico.

Il Buco, un codice proveniente da un mondo antico

La storia, infatti, è ambientata nel 1961, quando un gruppo di esploratori piemontesi decide di partire per una spedizione volta a tracciare le profondità dell’Abisso del Bifurto, appunto. E il tutto in un periodo storico che stava gettando le basi per cui molti degli equilibri biologici di quella zona si sarebbero iniziati irreversibilmente a incrinare.

Quando in Italia il boom economico stava esplodendo, e cominciavano a fiorire palazzi di centinaia di metri, degli uomini si incuneavano nei primordi dei meandri della Terra, evento che diventa l’ottima scusa per Michelangelo Frammartino per raccontare e portare alla luce una volta di più qualcosa che oggi abbiamo – evidentemente – sepolto sotto strati di cemento.

Le uniche parole si sentono all’inizio del film, e sono di una trasmissione televisiva di quegli anni, nella quale il telecronista si mostra arrampicato su un’impalcatura che sale verso la cima del Pirellone in costruzione, nel cuore di Milano, e ne spiega la spettacolarità, l’avanguardia. Ed è esattamente di questo calibro la missione che vuole intraprendere il regista: scendere nella natura selvaggia e incontaminata, grezza e inospitale, per narrarla in contrasto con tutto quel che poi lo scintillio apparente della modernità avrebbe inesorabilmente portato di lì a poco. E lo fa con espedienti che lavorano per alternanza tra l’asprezza degli spazi e dei volti, e l’affaccio di quel che stava penetrando man mano nel quotidiano, proprio come la televisione vissuta come un rituale serale condiviso nella piazza del paese. Il mondo artificiale, l’intervento predatorio dell’uomo, è raccontato a chiazze di colore, improvvise ma ancora timide, esemplificato da ritagli di giornali raffiguranti Sophia Loren, Kennedy, Marilyn Monroe, che vengono dati alle fiamme dagli speleologi e poi gettati nella caverna per scorgerne eventuali passaggi.

Un inno al dominio del creato

Il quadro che dipinge Frammartino è ancora avvolto dal dominio del creato, che abbraccia e ingloba tutte le scene, quasi come se fosse un’entità che impera dall’alto, e gestisce governando ciò che è concesso da ciò che non lo è. È dell’incontaminazione che vuole parlare, di com’era un tempo, lasciando una testimonianza che fa da monito su come sarebbe davvero il luogo che abitiamo, dentro al quale siamo solo ospiti, e che possiede una potenza che sa essere anche distruttiva.

Attraverso delle immagini che spesso sono statiche, inamovibili come montagne, a volte estenuanti per la lentezza, e che fanno sobbalzare dai rumori tuonanti e inaspettati, Il Buco fa esattamente ciò che promette: trascina in un terreno ostile, a cui è l’uomo a doversi adattare, senza possibilità di contrattazione di sorta, pena: la morte, oppure – e probabilmente, forse, è peggio – l’estraniazione in grandi città che fanno dimenticare le radici alle quali apparteniamo.

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