Lazzaro felice: recensione del film di Alice Rohrwacher

lazzaro felice

Lazzaro felice è la rappresentazione della bontà, quella che non riconosce il male, quella totale che spiazza, quella che, nel mondo, sembra essere scomparsa. Alice Rohrwacher decide, per il suo terzo lungometraggio presentato in concorso al Festival di Cannes 2018, di raccontare questa purezza attraverso gli occhi di Lazzaro, un adolescente che fa parte di un gruppo di mezzadri che lavorano nella tenuta dell’Inviolata, al servizio della Marchesa Alfonsina De Luna. Disponibile con tutti, gentile e molto ingenuo, Lazzaro sembra quasi “lo scemo del villaggio”, fino a che non incontra Tancredi, figlio viziato e “cittadino” della Padrona. Per il giovane contadino questo rapporto diventa qualcosa di strabiliante, un prezioso legame del tutto nuovo che il ragazzo è intenzionato a coltivare e difendere.

 

Al terzo racconto per il cinema la Rohrwacher sfocia nella fiaba, partendo da un realismo atemporale, quasi magico, che si condisce di critica sociale (leggermente) e di senso religioso, quasi mistico. Il nome del personaggio parla chiaramente all’immaginario cattolico, per cui alcune svolte del film possono essere anticipate, con una decisa sospensione della credibilità della storia e con lo spettatore che resta completamente spaesato di fronte a uno slittamento temporale e di fronte al miracolo senza prodigio di cui è testimone.

Quello che la  Rohrwacher sembra voler raccontare è la natura completamente rivoluzionaria del personaggio e del suo sguardo sul mondo. Siamo così disabituati alla gentilezza e alla bontà, dice Alice, che una persona che lo è profondamente e completamente risulta “stupida” all’occhio superficiale.

Lazzaro felice parla tanto attraverso la metafora, quella del lupo e di San Francesco, per esempio, raccontata da una delle giovani protagoniste, o quella della città contro la campagna, scontro da quale nessuno dei due ambienti risulta vincitore.

Diviso in due parti in maniera netta, Lazzaro felice è decisamente più armonico nella prima macro sequenza, in cui lo spettatore segue il protagonista, i ritmi della natura, la cattiveria della Marchesa e l’ingenuità dei mezzadri. Nella seconda parte, a cui lo spettatore fa fatica abituarsi, prende il sopravvento Lazzaro e il suo sguardo si un posto che non conosce, la città. Si tratta di un luogo inospitale, popolato da persone cattive e disperate che non si limitano a sfruttarlo, come la sua stessa famiglia faceva in campagna, ma lo raggirano e non capiscono la sua assenza di malizia.

Lazzaro felice è un’ode all’ingenuità e alla bontà, a quella disposizione d’animo che permette di accogliere il mondo in maniera sempre positiva, onesta, pensando sempre il bene di tutti. Proprio questo coraggio selvaggio nel mettere in scena un personaggio così contrario ai tempi, rende il film un’opera imperfetta e anche confusa, ma fa di quella confusione un ottimo mezzo per parlare al cuore.

Il film di Alice Rohrwacher, come il suo protagonista, parla a un animo limpido, senza sovrastrutture, a uno spettatore disposto ad accogliere la bontà assoluta senza sospettare mai il male.

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