Prodotto dalla Ghost House Picture di Robert Taper e Sam Raimi, esce nelle sale il prossimo 8 settembre Man in The Dark (titolo originale Don’t Breathe).

 

Il film è un thriller ad alta tensione, e narra la vicenda di tre improvvisati ladruncoli d’appartamento che, per concludere in bellezza la loro “carriera”, decidono di svaligiare la casa sbagliata. Il proprietario – un uomo apparentemente innocuo, anziano e cieco – è in realtà più pericoloso di quanto i ragazzi possano immaginare e darà loro filo da torcere.

La regia è affidata a Fede Alvarez, già avvezzo ai film dalla suspense elevata, in quanto direttore del remake de La casa. Direttamente dalla sua opera precedente Alvarez ripropone sullo schermo la brava Jane Levy, forse qui in un ruolo più riuscito e meno sopra le righe di quello della ragazzina tossicodipendente e posseduta del remake horror.

Al pari dell’attrice, per bravura e magnetismo, c’è Stephen Lang (Avatar), magistrale nel ruolo dell’anziano e solitario abitante di una casupola diroccata che nasconde terribili segreti. Nel disvelarsi dei torbidi segreti dell’uomo cieco si fonda e si sviluppa tutta la tensione del film, sapientemente rilasciata nei momenti adatti, in un crescendo finale che rende edotto e sconvolto lo spettatore. Ogni qual volta si pensa di essere arrivati ad un punto di svolta, subito ne arriva un altro che stravolge e rimescola le carte in tavola. Ed è questo il lato vincente del film.

Tuttavia non si può fare a meno di contestualizzare la pellicola all’interno della nuova generazione filmica che, volente o nolente, sta rovinando Hollywood. L’esiguità della sceneggiatura, la mancanza di nuove idee, la volontaria manifestazione su schermo di un mondo che viaggia alla velocità della luce, ecc ecc. Nella generazione dei social network, degli incontri mordi e fuggi, dei viaggi lampo, nulla rende meglio (anzi peggio) la realtà di un cinema che immette immediatamente lo spettatore al centro dell’azione, senza dare troppe spiegazioni e negando ogni attimo di sospensione per raccogliere fiato e idee.

Contestualmente al mondo superficiale che vuole raccontare, il cinema hollywoodiano non cammina ma corre, e non dialoga più. Al massimo urla. Esprimendo così ancor più pervicacemente la propria ambiguità. Che in un thriller come Man in the dark risiede anzitutto nell’empatizzazione, da parte dello spettatore, dapprima con l’anziano abitante vittima dei ladri, e successivamente con i tre “poveri” ladruncoli prede del loro stesso carnefice.

Man in the Dark è un film estremamente americano, la cui cultura e comprensione – in parte s’intende – è fortemente radicata nella convinzione tutta made in USA di essere la nazione über alles, l’Unica, la più forte. Quella fondata sul motto, troppo spesso frainteso, del “Proteggere e Servire”.

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