The Burnt Orange Heresy: recensione del film di Giuseppe Capotondi #Venezia76

The Burnt Orange Heresy inizia con un assunto interessante, ovvero che la critica può inventare a seconda della sua fantasia ragionata i significati nascosti dell’opera e far credere a chi legge l’opera attraverso i suoi occhi che quella sia la verità. A dirlo, nel film diretto da Giuseppe Capotondi e tratto dall’omonimo romanzo di Charles Willeford, è James Figueras (Claes Bang), critico d’arte e scrittore forse fallito che per campare tiene lezioni per i turisti interessati solo a Michelangelo e Caravaggio (“come se fossero gli unici pittori della storia”) in un lungo monologo ripreso dal regista de La doppia ora in due piani alternati: da una parte c’è la prova nella sua stanza, il recitare davanti allo specchio simulando il discorso, dall’altra la performance vera con il pubblico, le pause studiate per l’applauso, il congedo della vittoria.

 

Peccato che in questo gioco di bugie ben architettato arrivi l’imprevisto – nella vita come nel modo in cui ci approcciamo all’arte e alle intenzioni dell’autore – nella forma di una giovane donna misteriosa seduta in fondo alla sala. James incontra Berenice (Elizabeth Debicki), passano la notte insieme, e complici decidono di trascorrere un weekend nella villa sul lago di Como di un ricco collezionista (Mick Jagger) determinato a ottenere, tramite intercessione di Figueras, l’ultimo dipinto di Jerome Debney (Donald Sutherland).

Curiosamente la 76a Mostra del cinema di Venezia si chiude con un altro film che parla di maschere e relazioni personali legate o proprio ambientate nel mondo dell’arte (dopo Le Verità di Kore-eda Hirokazu), solo che qui Capotondi sceglie di addentrarsi nelle stanze del thriller alla Hitchcock, al quale rende omaggio in più di un’occasione, mescolando il linguaggio del giallo e del noir per raccontare i limiti dell’ambizione umana, le bugie che diciamo per raggiungere i nostri obiettivi e gli effetti spesso violenti e negativi che questa manipolazione della realtà produce.

E spostando l’azione da Palm Beach, luogo originale del romanzo, all’Italia lacustre del nord pericolosa e conturbante, l’adattamento di The Burnt Orange Heresy si rivela allo spettatore come un classico gioco di inganni e potere con attori bellissimi ed elegantissimi che sembrano usciti dalla Hollywood d’oro degli anni Cinquanta e Sessanta, rispettando tutti i codici della tradizione hitchcockiana senza nemmeno provare a riscriverli o ad aggiornarli ai tempi moderni.

Gli spunti di riflessione ci sono, e abbracciano temi che vanno dal complicato rapporto tra l’arte e la critica al ruolo della critica stessa nel discorso contemporaneo alle contraddizioni di un protagonista accecato dalla propria ambizione, passando per metafore più o meno esplicite (e alcune anche un po’ maldestre) che devono accompagnare il viaggio dell’anima dei personaggi costretti ad un punto di svolta nelle loro vite, tuttavia non sono sufficienti a risollevare le sorti di un’opera che sembra già scritta fin dalla prima scena, incastrata nei suoi rigidi schemi eppure gestita con grande sapienza dal regista.

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