AmoreodioLa diciassettenne Katia vive in un piccolo paese. A scuola le cose vanno male, mentre i genitori non vogliono che frequenti il coetaneo Andrea. Con lui la ragazza cerca di sconfiggere la noia, girovagando in motorino, o facendo sesso in una vecchia cascina abbandonata. Ma nulla sembra interessarla, tutto le scivola addosso. Pur di contrastare apatia e frustrazione prova ogni cosa, coinvolgendo spesso anche Andrea, timoroso e schivo: dalle sbronze ai sassi lanciati dai cavalcavia. Restano però rabbia e risentimento verso un mondo che non la tiene nella giusta considerazione, a partire dai genitori, in particolare la madre, con cui non c’è rapporto o comunicazione, ma solo durezza e ostilità. Così Katia pensa a un gesto tragico, estremo, che crede risolutivo, da compiere assieme ad Andrea.

 

Opera prima di Cristian Scardigno, da lui sceneggiata e autoprodotta con la Underdog Film, Amoreodio, liberamente ispirato ai fatti di Novi Ligure, è un dramma che mostra la preparazione di un crimine fino al tragico epilogo. Ma quello che interessa al regista sono soprattutto gli adolescenti, è mostrare il vuoto, il mondo emotivo arido in cui alcuni crescono, che li rende apatici, cinici e crudeli, disinteressati, ma alla ricerca di qualcosa che li distolga dal torpore, di una “scossa” anche solo momentanea – trasgressione, in varie forme, che qui arriva fino a un crimine tra i peggiori. Attorno a questo vuoto, le cause: un rapporto genitori-figli inesistente, un’incapacità di comunicare, di essere esempio positivo, anche nella sfera emotiva, di vedere l’altro e i suoi bisogni. E l’ambiente: i giovani e il mondo di internet, la fascinazione per i media e, in generale, per tutto ciò che li può far sentire, anche solo virtualmente, al centro dell’attenzione.

Il film pone sì questi temi, ma non li approfondisce, mentre vuoto, noia, monotonia diventano paradigma dell’intero lavoro. Contraddistinguono le giornate dei due protagonisti e scandiscono l’andamento del film: volutamente ripetitivo, con molto uso del ralenti, risulta anch’esso lento e apatico, poco coinvolgente nonostante i temi forti. Katia è una maschera di freddezza e imperturbabilità (complessivamente buona interpretazione di Francesca Ferrazzo), in cui ogni sentimento, positivo o negativo, è represso, e porta all’esplosione finale. Sta allo spettatore immaginare la complessità che si nasconde dietro quella facciata. Andrea (Michele Degirolamo) la segue per amore e solitudine. Anche i genitori e il fratello di Katia sono poco più che sagome: un gendarme la madre, pressoché inesistenti gli altri due. Questo è il limite del film. Il regista mostra ciò che è evidente e non si addentra abbastanza nel resto. Non coglie del tutto l’opportunità di scavo che è la vera marcia in più dell’opera di finzione rispetto alla cronaca e scivola nella pura ricostruzione.

Stilisticamente sobrio e pulito, l’elemento cruento è misurato.

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