C'era una volta in Anatolia

C’era una volta in Anatolia un uomo sospettato di omicidio: manca, però, il ‘corpo del reato’ e il presunto colpevole è costretto a condurre la polizia sul luogo in cui ha seppellito il cadavere della vittima. Comincia così un estenuante viaggio fra le steppe desolate di una gelida notte d’inverno. Tra una tappa e l’altra di questa singolare ricerca emergono gli indizi che aiuteranno a far luce sulla triste vicenda. E non solo…

 

Grand Prix della Giuria a Cannes 2011, il nuovo film del turco Nuri Bilge Ceylan (Le tre scimmie, Il piacere e l’amore) è un giallo decisamente originale. Se passiamo brevemente in rassegna gli elementi tipici di ogni crime story che si rispetti, C’era una volta in Anatolia sulla carta non riserva certo grandi sorprese: c’è un delitto, c’è un sospettato, c’è un commissario – che qui indaga fianco a fianco con un procuratore che si crede Clark Gable – e c’è un medico legale.

Non mancano neppure i personaggi di contorno più ‘leggeri’, come i poliziotti un po’ tontoloni che accompagnano gli inquirenti, dando vita a una serie di siparietti in cui si punzecchiano a vicenda e finiscono per irritare ulteriormente il loro superiori, già provati dalla difficile situazione. Sullo sfondo, un paesaggio deserto immerso nell’oscurità della notte, illuminata solo dai fari delle auto della polizia che si muovono, instancabili, da un luogo all’altro in cerca del cadavere. Ecco, il cadavere: rappresenta il primo indizio delle ‘anomalie’ di questo giallo tutto particolare. Si parla di omicidio, ma la vittima non si trova e tocca affidarsi al principale indiziato per rintracciare il corpo.

C’era una volta in Anatolia, il film

Il diretto interessato, dal canto suo, sembra coinvolto solo parzialmente: è accusato di un crimine gravissimo, eppure non oppone molta resistenza, quasi non spiccica parola e, fra una tappa e l’altra del viaggio, spesso schiaccia un pisolino. Anche gli inquirenti, però, si mostrano interessati fino a un certo punto: già dalle prime scene il delitto sembra passare lentamente in secondo piano, fino a diventare appena percettibile – se non addirittura ‘irrilevante’ – per dare, invece, spazio ai conflitti interiori dei diversi personaggi. È come se ognuno avesse cose più importanti a cui pensare, un ‘caso privato’ da indagare, e, attraverso il confronto più o meno aperto coi compagni d’avventura, tutto ciò che d’irrisolto c’è nelle loro vite verrà irrimediabilmente a galla. Riusciranno a venire a capo dei loro problemi? Il caso vero e proprio sarà chiuso? Chi può dirlo… Quel che si può dire è che C’era una volta in Anatolia è, appunto, un film insolito e, per certi versi, ‘impegnativo’ perché, pur essendo una crime story, è privo del ritmo, degli intrighi e dei colpi di scena che definiscono il genere così come lo conosciamo dalla notte dei tempi.

E più che la ricerca del colpevole o della vittima, qui è la ricerca del protagonista che la fa da padrone! È praticamente impossibile scoprire qual è lo sguardo ‘portante’ per buona parte del film… Serve solo un po’ di pazienza. Il cast è strepitoso, la fotografia splendida.

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Giuditta Martelli
Giovane, carina e disoccupata (sta a voi trovare l'intruso). E' la prova vivente che conoscere a memoria Dirty Dancing non esclude conoscere a memoria Kill Bill, tutti e due i Volumi. Tanto che sulla vendetta di Tarantino ci ha scritto la tesi (110 e lode). Alla laurea in Scienze della Comunicazione seguono due master in traduzione per il cinema. Lettrice appassionata e spettatrice incallita: toglietele tutto ma non il cinematografo. E le serie tv. Fra le esperienze lavorative, 6 anni da assistente alla regia in fiction e serie per la televisione (avete presente la Guzzantina in Boris?). Sul set ha imparato che seguire gli attori è come fare la babysitter. Ma se le capita fra le mani Ryan Gosling...