Jimi All is By My Side recensione

Jimi All is By My SideDa sempre, nel patinato mondo di Hollywood affascinato dal mito del Rock ‘n’ Roll, si rincorre l’utopia di immortalare definitivamente, sul grande schermo, le icone che lo hanno popolato, assurgendo allo status di miti generazionali.

 

Alcuni di loro, però, non sono riusciti così facilmente a trovare un loro spazio vitale nel panorama cinefilo del fiction biopic, restando così sospesi nell’immaginario creativo di autori, registi e attori. È il caso del mito di Jimi Hendrix, icona della generazione hippie di Woodstock, troppo presto stroncato dalla morte a nemmeno trent’anni, che ha segnato- con la sua musica psichedelica e malinconica- uno spartiacque tra la concezione canonica del blues e del rock fino a quel momento concepiti ed ascoltati.

John Ridley, premio Oscar 2014 per la sceneggiatura di 12 Anni Schiavo, si accolla il difficile compito di raccontare, tramite linguaggio audiovisivo, la vita, gli amori, la fama, la personalità ma soprattutto la musica di Jimi Hendrix, il suo mondo considerato fino ad oggi così inaccessibile e quasi impossibile da tradurre in immagini. Per farlo, sceglie di concentrarsi su un momento cronologicamente ben preciso: gli anni precedenti al suo concerto di Monterey del 1967, durante il quale diede fuoco alla sua chitarra consacrandosi definitivamente ed entrando nel mito.

Seguiamo così, sullo schermo, l’affermazione e l’ascesa di Jimi James (così si faceva chiamare in un primo momento): dai locali dell’underground newyorkese, passando per l’incontro con Linda Keith (compagna di Keith Richards, “mentore”, amica innamorata da sempre), la trasferta londinese sotto l’egida sapiente del bassista degli Animals improvvisatosi manager fino alla nascita della Jimi Hendrix Experience, con il successo delle prime esibizioni (e con la benedizione dei Beatles) fino alla partenza per Monterey. Il tutto, però, raccontato senza cadere nella classica retorica da biopic, dove troppo spesso si assiste soltanto allo scorrere passivo di immagini sullo schermo: l’abilità di Ridley sta nel tentativo di analizzare il mondo di Hendrix ma soprattutto la sua particolare visione di esso e della realtà, la sua volontà (involontaria) di voler cambiare il corso degli eventi e le persone solo con la sua musica, una musica atipica che sfuggiva a qualunque catalogazione, compensando le sue scarse doti di timido oratore con la potente voce vibrante della sua chitarra. L’uomo, l’artista, il mito: la regia particolare e attenta, mai sciatta o banale, che si allontana dal classico documentario, conferisce maggior forza alla potenza del racconto, insieme ovviamente alle interpretazioni magistrali degli attori (su tutti, il sorprendente protagonista Andrè Benjamin, già frontman degli OutKast) che non si limitano ad interpretare dei personaggi reali, cadendo così nel controsenso della scialba imitazione, ma… riportano in vita (soprattutto nel caso di Hendrix/ Bejamin) glorie e miti che hanno segnato la storia personale di un singolo, prima che quella di una generazione.

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Ludovica Ottaviani
Ex bambina prodigio come Shirley Temple, col tempo si è guastata con la crescita e ha perso i boccoli biondi, sostituiti dall'immancabile pixie/ bob alternativo castano rossiccio. Ventiquattro anni, di cui una decina abbondanti passati a scrivere e ad imbrattare sudate carte. Collabora felicemente con Cinefilos.it dal 2011, facendo ciò che ama di più: parlare di cinema e assistere ai buffet delle anteprime. Passa senza sosta dal cinema, al teatro, alla narrativa. Logorroica, cinica ed ironica, continuerà a fare danni, almeno finché non si ritirerà su uno sperduto atollo della Florida a pescare aragoste, bere rum e fumare sigari come Hemingway, magari in compagnia di Michael Fassbender e Jake Gyllenhaal.