The Ugly Stepsister: recensione del film di Emilie Blichfeldt

Abbiamo visto in anteprima l’esordio di Emilie Blichfeldt ribalta lo sguardo sul mito di Cenerentola: un racconto cupo, sensuale e politicamente affilato, dove bellezza e dolore si specchiano l’uno nell’altra

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Ambientato in una Svezia immaginaria tra Sette e Ottocento, The Ugly Stepsister di Emilie Blichfeldt – dal 30 ottobre nelle sale italiane – ribalta la fiaba di Cenerentola dal punto di vista della “cattiva”: Elvira (Lea Myren), primogenita di Rebekka (Ane Dahl Torp), approda con la madre e la sorella Alma (Flo Fagerli) nella dimora di un nobile decaduto. Qui vive Agnes (Thea Sofie Loch Næss), la Cenerentola “ufficiale”: eterea, bellissima, già pronta a essere esibita nel mercato matrimoniale del regno. Quando il principe Julian (Isac Calmroth) annuncia un ballo per scegliere la futura consorte, Elvira si convince che l’unico modo per competere sia piegare il proprio corpo a un ideale irraggiungibile di perfezione.

La regista norvegese sceglie l’angolo più scomodo: raccontare la nascita del “mostro” come prodotto sociale. Niente manicheismi: Agnes non è un’icona immacolata, Elvira non è solo nemesi. Le due incarnano strategie opposte di sopravvivenza dentro una struttura patriarcale dove il matrimonio è moneta, la giovinezza capitale, la bellezza un’arma (o una condanna).

Il corpo come allegoria politica

Blichfeldt innesta sulla fiaba un body horror d’impatto: nasi fratturati, denti estirpati, ciglia cucite, diete da fame e pratiche mediche primitive diventano gesto estetico e discorso politico insieme. L’eco dei Grimm (i talloni tagliati per entrare nella scarpetta) si fa letterale e cinematografico: ogni intervento su Elvira è un atto di violenza simbolica in nome dell’accettazione sociale. La metamorfosi non “eleva” – come in tanta retorica contemporanea – ma mutila: l’ascensione passa dal dolore, e il film non distoglie lo sguardo.

È qui che The Ugly Stepsister si allinea ai percorsi più radicali dell’horror europeo recente (pensiamo banalmente al recente The Substance): non tanto per l’estetica dello choc, quanto per la capacità di tradurre ansie culturali (standard di bellezza, interiorizzazione del giudizio maschile, rivalità femminile indotta) in immagini che feriscono e restano.

Forma e sensualità del disgusto

Una scena di The Ugly Stepsister - © Scanbox Entertainment

La messa in scena regge la doppia tensione tra raffinato e ripugnante. La fotografia di Marcel Zyskind lavora in chiaroscuro, screziando i volti con una luce “pittorica” che rimanda al XIX secolo; i saloni, i velluti, i blu cerei dei vestiti compongono un tableau sontuoso che la regia punge con improvvise incursioni nel grottesco. Il costume design di Manon Rasmussen non illustra soltanto l’epoca: stratifica simboli – corsetti come gabbie, parrucche come maschere – e fa del guardaroba un lessico del dominio.

Il montaggio di Olivia Neergaard-Holm mantiene il film in equilibrio: alterna il rituale (le prove di danza, la vestizione di Agnes) all’osceno chirurgico, evitando che la narrazione scivoli nel compiacimento. Le musiche di Vilde Tuv e Kaada innestano un’anacronia controllata: inserti elettronici su iconografie d’altri tempi che esplicitano la tesi – il presente risuona dentro il passato, perché le regole non sono poi cambiate così tanto.

Umanità oltre gli archetipi

Lea Myren scolpisce una Elvira che non chiede perdono: ingenua e feroce, insieme vittima e agente del proprio martirio. È il suo sguardo a guidare l’empatia, a farci sentire il prezzo della trasformazione. Thea Sofie Loch Næss evita la “santificazione” di Agnes: la sua è una lucidità pragmatica, la consapevolezza che la bellezza può comprare margini di libertà – a costo di altri vincoli. Ane Dahl Torp tratteggia una Rebekka memorabile: madre carnefice e a sua volta creatura schiacciata dalle stesse regole che impone alla figlia. Flo Fagerli (Alma) è il contrappunto: silenziosa, laterale, lascia filtrare un possibile varco di tenerezza nel meccanismo della violenza.

Nel terzo atto la sceneggiatura esplicita alcune linee tematiche già leggibili nelle immagini: una sovrabbondanza di spiegazioni che toglie aria al non-detto. Qualche snodo emotivo – in particolare il rapporto Elvira/Alma – avrebbe meritato più respiro per sprigionare tutta la sua potenza. Eppure il film regge perché non cerca la morale facile: preferisce la contraddizione alla tesi, la cicatrice alla sentenza.

Una fiaba riscritta nel sangue

Lea Myren in The Ugly Stepsister - © Scanbox Entertainment

Rispetto ad altri titoli recenti che intrecciano fiaba e body horror, The Ugly Stepsister convince per coesione e coraggio visivo, e forse leggermente meno per la finezza drammaturgica. Ma quando lascia parlare i corpi, i tessuti, i rumori della carne, raggiunge un’intensità rara.

Opera prima ambiziosa e personale, The Ugly Stepsister è un racconto di formazione al contrario: non l’ingresso nell’età adulta, ma l’apprendimento della crudeltà necessaria a esistere in un sistema che monetizza il desiderio e consuma i corpi. Blichfeldt firma un esordio che sporca la fiaba di fango e sangue e restituisce ai “cattivi” la dignità di personaggi – non pedine – dentro un mondo che pretende bellezza e accetta mutilazioni.

The Ugly Stepsister
3.5

Sommario

The Ugly Stepsister rilegge Cenerentola dal punto di vista della “cattiva” e trasforma la fiaba in un body horror politico, dove il corpo femminile diventa merce e campo di battaglia. La regia di Emilie Blichfeldt bilancia gusto pittorico e grottesco, sostenuta da prove solide (Lea Myren su tutte) e da un design visivo di grande coerenza simbolica.

Agnese Albertini
Agnese Albertini
Nata nel 1999, Agnese Albertini è giornalista e critica cinematografica per Cinefilos.it, Best Movie e CinemaSerieTv.it. Laureata in Lingue e Letterature straniere all’Università di Bologna, dal 2022 scrive articoli, news, interviste in inglese e crea contenuti per i social.

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