Illusione racconta la storia di Rosa (Angelina Andrei), una ragazza rumena di quindici anni che vive in un piccolo paese vicino a Bucarest e sogna di diventare modella. La sua è la speranza ingenua di chi crede che la bellezza possa essere un passaporto verso un futuro migliore, un modo per emanciparsi da una realtà povera e senza prospettive. Insieme al cugino Sorin, lascia la Romania e parte per Strasburgo, dove Sorin è convinto di poterle trovare dei contatti. Ma il viaggio, che dovrebbe rappresentare una rinascita, si trasforma ben presto in una trappola. Rosa non entra nel mondo della moda, bensì in quello della prostituzione, in una rete di sfruttamento gestita da organizzazioni criminali che si muovono tra i confini dell’Europa orientale e occidentale.
Francesca Archibugi filma la discesa di Rosa con una regia attenta e priva di retorica, mescolando suspense e malinconia, tensione e pietà. Non c’è spettacolarizzazione del dolore, ma uno sguardo lucido, che si ferma sulle pieghe più intime della paura e dello smarrimento. È attraverso gli occhi della giovane protagonista che lo spettatore scopre l’altra faccia dell’Europa: quella delle strade secondarie, dei corpi mercificati, dei sogni che diventano merce di scambio. L’“illusione” del titolo diventa così una metafora potente – quella di un intero continente che promette libertà ma offre, troppo spesso, solo solitudini e ingiustizie.
Illusione: dalla cronaca al grande schermo
La genesi del film affonda le radici in un episodio realmente accaduto. Anni fa, Francesca Archibugi ha letto un trafiletto sul Corriere dell’Umbria: si parlava del ritrovamento di una ragazza molto giovane, riversa in un fosso vicino a una superstrada, creduta morta ma poi soccorsa in extremis. Di quella vicenda non si seppe più nulla, e proprio quel silenzio, quella rapida dimenticanza, spinsero la regista a immaginare la storia di Rosa Lazar.
Da quell’immagine prende forma Illusione, un film che si muove tra denuncia e introspezione, tra realtà e costruzione narrativa. Archibugi non punta il dito contro un singolo colpevole, ma mostra un sistema di poteri e omissioni che rende possibile la violenza. Come spesso accade nel suo cinema, la sceneggiatrice – e regista – parte dal particolare per arrivare all’universale, interrogandosi su cosa significhi essere responsabili, complici o semplicemente indifferenti. E, se Il colibrì (tratto dal celebre romanzo di Sandro Veronesi) indagava la resilienza dell’individuo, Illusione scava invece nella fragilità collettiva, nella cecità morale di una società che accetta il male come inevitabile.
Figure di potere e fragilità
Attorno a Rosa si intrecciano le storie di personaggi che incarnano diverse forme di potere e vulnerabilità. Troviamo il pubblico ministero, Cristina Camponeschi, interpretata da Jasmine Trinca, donna dal carattere chiuso, solitaria, quasi ostile, che affronta il caso con freddezza apparente ma dentro di sé porta il peso di trovare al più presto la verità. C’è, poi, Stefano Mangiaboschi (Michele Riondino), lo psicologo incaricato di valutare lo stato mentale della ragazza: figura complessa, segnata da un passato violento che riemerge quando meno ci si aspetta, rendendo labile il confine tra chi cura e chi ferisce. Da ricordare anche il commissario locale (Filippo Timi), un uomo che conosce tutti, sempre pronto a commentare e incapace talvolta di agire nel modo giusto perché vittima della propria soggettività. Accanto a loro, la moglie di Stefano Mangiaboschi (Vittoria Puccini), che si rende conto della difficoltà della situazione e cerca di proteggere il marito.
Rosa, al centro di questo mondo di adulti corrotti o impotenti, diventa specchio e vittima. La sua ingenuità iniziale lascia spazio a una consapevolezza dolorosa, e il suo percorso – dalla Romania alla Francia, fino a un fosso nei dintorni di Perugia – è un viaggio nell’Europa dei margini, quella che preferisce non essere guardata. Archibugi costruisce intorno a lei un tessuto narrativo denso, in cui ogni incontro diventa un frammento del puzzle sociale che intrappola i più deboli.
Illusione: un dramma morale
Nel suo complesso, Illusione è un film che non si limita a raccontare un caso di cronaca, ma interroga le nostre responsabilità come spettatori e cittadini. La regista dosa i toni con eleganza, alternando momenti di forte tensione a silenzi sospesi, dove lo sguardo di Rosa – perduto, incredulo, a volte risoluto – dice più di mille parole.
Illusione, pur appartenendo al genere drammatico, adotta con naturalezza i codici del thriller, intrecciando tensione e introspezione. Ne risulta un racconto che, al di là del mistero e dell’indagine, si trasforma in un dramma morale, dove l’azione lascia spazio alla riflessione e la suspense diventa coscienza. Il risultato è una pellicola in cui la violenza non è solo fisica ma soprattutto sistemica, inscritta nella disattenzione collettiva. Un film che fa male perché descrive le sofferenze di tante, troppe donne, e che riporta al centro la dignità di chi non ha voce e chiede, almeno, di essere visto.
Illusione
Sommario
Un thriller civile e umano che affronta con coraggio un tema scomodo, restituendogli dignità e complessità. A volte l’impianto narrativo si fa dispersivo, ma la forza del film risiede nelle interpretazioni e nella sensibilità con cui Archibugi indaga l’animo dei suoi personaggi.
