Dopo Gli abbracci spezzati, Pedro Almodovar ritorna al cinema con La pelle che abito, una storia di violenza, inflitta e subita, di sessualità disturbata, di vendetta, identità e sopravvivenza.

 

Ne La pelle che abito Robert Ledgard è un eminente chirurgo plastico che, sacrificando successo e denaro, smette di operare per dedicarsi alla ricerca. Le sue giornate si dividono tra il suo laboratorio e i convegni con i colleghi che vogliono carpire i suoi segreti.   Ma cosa nasconde quest’uomo affascinante e dall’aspetto imperturbabile? La sua casa, un’immensa villa, ci svela il mistero: una donna che, segregata in casa, nasconde a sua volta un inconfessabile segreto.

La pelle che abito ritorno ai “classici fantasmi”

Il regista, coerentemente con se stesso, ripropone con intrecci diversi e stile sobrio i suoi classici fantasmi: una o più donne coinvolte in torbidi segreti, uomini che non riescono a vivere il sesso se non attraverso la violenza, una figura centrale di straordinaria forza che attraverso inimmaginabili sofferenze trova una via d’uscita. Pur facendo leva su tutti questi cardini narrativi largamente collaudati, Almodovar  inciampa nella sua stessa storia, poiché non riesce a dare ai suoi personaggi spessore né drammaticità. Le tragedie che colpiscono i protagonisti non oltrepassano lo schermo, il racconto è sterile e per lo spettatore è come guardare un acquario nel quale nuotano i pesci/attori.

Dopo diverso tempo Almodovar ritrova Antonio Banderas, con il quale però non si ripetono i successi passati (Legami! e La legge del desiderio), ed al quale affida un personaggio complesso ma impassibile che rischia di far sembrare scarsa anche la performance dell’attore. Anche la struttura narrativa di La pelle che abito, un sistema a scatole cinesi che vanno a ritroso nel tempo, risulta forzata poiché invece di dare suspence al racconto lo appesantisce e lo rende prevedibile. Lo stesso Alberto Iglesias, compositore abituale per Almodovar, questa volta sbaglia, realizzando una soundtrack eccessiva e invasiva, che sovraccarica l’universo già affollato di oggetti e sentimenti di un brillante regista che ha avuto una caduta di stile.

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