Il Figlio dell’Altra: recensione del film Lorraine Lévy

In Lorraine Lévy durante la visita di leva per il servizio militare, che in Israele inizia a 18 anni e dura 3 anni, Joseph scopre di non essere figlio biologico dei suoi due genitori, è stato scambiato con un altro bambino, nato da una donna palestinese che partoriva nello stesso ospedale. L’errore fu commesso nell’evacuazione dell’ospedale per un bombardamento. Le due famiglie si troveranno così ad affrontare questioni di divisioni e saranno costrette a valutare ed avere esperienza della vita di quello che prima era semplicemente l’altro popolo nella terra mediorientale.

 

Lo scambio di persona, l’equivoco, è il motore di molte storie cinematografiche: da Hitchcock ad Antonioni, ci si scambia l’identità, volontariamente o meno, per curiosità o perché qualcuno ci vuole mettere alla prova.

Questo è il caso dei due protagonisti, Yacine e Joseph, ragazzi cresciuti in posti vicini ma mai così diversi come sono Israele e Palestina, divisi da un muro ma da anni di odio e tensione. Tutti e due vivono la contraddizione di questo territorio mediorientale sulla propria pelle; di punto in bianco non sono più quello che sapevano di essere, e devono ricostruire la loro identità. Sperimentano anche le assurdità ideologiche della religione, per la quale, anche se sei stato circonciso e hai seguito i dettami della Torah per una vita, se non sei ebreo di sangue, non lo sei e basta.

Gioca sul filo del giudizio, la regista Lorraine Lévy, senza sbilanciarsi mai in una posizione pro o contro la situazione palestinese, ma è molto brava nell’evidenziarne l’assurdità generica e radicata, soprattutto nelle vecchie generazioni.

Per rimanere su questo equilibrio, lei, ebrea non israeliana, ha consultato due intellettuali importanti delle due culture rappresentate: Yasmina Khadra, intellettuale arabo e Amos Oz scrittore e pacifista israeliano. Grazie alla consulenza soprattutto del primo, la regista è riuscita a rendere il film un’opera in equilibrio tra le due parti, anche se, inevitabilmente, alcune assurdità emergono ad ogni modo.

Si tratta di una coproduzione israelo-francese, che ha dalla sua la bellezza di essere multilingue, la difficoltà di interagire passa anche per la lingua e così dal francese si passa all’ebraico e all’inglese, fino all’arabo e alla gestualità, quando proprio non c’è altro modo di farsi capire.

La questione israelo-palestinese è complicata, ma ciò che il film lascia è quella che è la sensazione comune anche di chi visita quei territori: l’impossibilità almeno apparente di un dialogo, che è ben rappresentato dal contrasto che si viene a creare tra due dei genitori, ognuno dei quali ha le sue ragioni per sentirsi dalla parte giusta della lotta. Stato d’animo che però non porta da nessuna parte.

Un po’ di speranza viene riposta nelle nuove generazioni, aperte all’altro e anche a capire quello che succede aldilà dei propri confini, e in questo caso, proprio a pochi chilometri da casa propria.

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