Unfriended è un inquietante ma ironico incubo tutto in soggettiva e vissuto attraverso mezzi di comunicazione contemporanei recenti. Skype, Facebook, iMessage sono strumenti attraverso cui scorre l’orrore, interamente in tempo reale dalla prospettiva del laptop della protagonista Blaire. A metà tra mockumentary e found footage, Unfriended si dimostra, nonostante qualche rozzezza, un ulteriore esempio estremamente riuscito di indie horror. Nonostante tra gli innumerevoli figli della exploitation del found footage horror degli ultimi anni non sia il più originale, il nuovo film di Blumhouse Productions riesce a sfruttare per bene i concetti in ballo, in particolare il cyberbullismo e la vendetta online. I temi sono mixati grazie all’aiuto della naturale tendenza internettiana alla leggenda metropolitana, la quale si rende qui un perfetto collante se non motore della storia.

 

unfriendedDopo Sinister, Insidious, The Purge – solo per citarne alcuni – il famoso producer Jason Blum non poteva farsi sfuggire una nuova ulteriore declinazione contemporanea (ma classica nella struttura) del terrore e della paura, i quali sembrano qui fondersi imprescibilmente con la vergogna. Quella regnante è la paura – giustificatissima nell’epoca della condivisione totale – del leak, della perdita della privacy e del turbine virale di molestie e insulti di cui si può diventare in un attimo vittime e senza possibilità di degno contraddittorio o difesa. Unfriended però non denuncia semplicemente la sadismo che trova il suo deflusso online (a molti tornerà alla mente il caso Amanda Todd): senza prendersi a tratti troppo sul serio e senza ergersi troppo al di sopra, il film con poche pennellate delinea il ritratto di una società di individui ossessionati dall’apparire coerenti all’immagine che si è deciso di trasmettere tramite i vari social, divenuti vero e proprio simulacro di un’identità da preservare. In questo contesto, già qualche incrinatura di solito non è ben accetta, figuriamoci foto e video incriminanti in momenti di debolezza.

Morte social, morte sociale e morte reale vengono sarcasticamente fatte scorrere su binari paralleli da un film che sapientemente usa contro lo spettatore gli stessi mezzi con cui si perpetua sadicamente la vendetta online nel film e nella realtà. La finestra di Skype e la chat, con le rispettive peculiarità comunicative, divengono qui mezzo espressivo-mimetico per raccontare un incubo paranoico che non permette mai di andare completamente offline. Si tratta di un interessante esperimento audiovisivo che gioca sul classico schema della visione ma impotenza di fronte alla violenza perpetrata in diretta davanti i propri occhi. Uno schema che è sempre stato un punto forte del voyeurismo cinematografico e che ora viene “tramandato” ai new media.

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