Una camera buia, silenziosa, stretta nella rigorosa simmetria dell’inquadratura, e una madre, devastata, sofferente come se qualcuno le avesse appena strappato il ventre, con forza. Tutto all’ombra di un Cristo in croce, nudo, inerme; un uomo, un figlio sacrificatosi per i peccati del mondo, che attende la Pasqua per ritrovare i vivi e consolarli.
Le immagini che segnano il debutto di Piero Messina nel cinema che conta sono istanti che non si dimenticano facilmente, che si insinuano nell’anima per abitarla a tempo indeterminato. Non perché aprono la strada a un soggetto incredibilmente originale, universale, anzi, si parla di elaborazione del lutto, di mancanze, di silenzi, temi abbastanza cari al grande schermo. Per capire bisogna affiancare i personaggi, entrare a passi lievi nella loro umanità, la loro essenza, e ritrovare nei loro occhi momenti di vita che noi stessi abbiamo vissuto o che potremmo vivere. Bisogna condividere con loro il dolore, l’assenza, l’attesa. Già, cos’è questa attesa che regala il titolo al film? Si attendono i momenti giusti, le telefonate, i ritorni, le partenze e gli arrivi, in un casale sperduto nelle campagne del ragusano, in Sicilia. Un non-luogo che per pochi giorni unisce due universi all’apparenza paralleli, quello di una madre che ha appena perso un figlio e quello di una ragazzina francese, timida e inesperta, che attende il ritorno dell’uomo che ama, e che non tornerà. A differenza del pubblico, che lo intuisce, lei ancora non lo sa, dunque è anche da spettatori che si è preda dell’attesa, del momento in cui ogni verità salterà al pettine. La sua presenza, nel frattempo, restituisce ad Anna – seppur idealmente – il figlio perduto; i vestiti del lutto vengono abbandonati in favore dei colori, i drappi neri sugli specchi vengono strappati via, il cibo riprende forma e sapore, prima della resurrezione, della celebrazione, della pace interiore.

