La recensione del film d’animazione La Principessa Mononoke del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki.

Ashitaka scoprirà anche che il demone Nago, da lui ucciso, era un Dio tramutato in demone dalla ferita di un proiettile, sparato proprio da Eboshi. La Città del Ferro, alleatasi con gli emissari imperiali, si prepara ad abbattere per sempre il popolo della foresta, tentando di ucciderne il Dio. Ashitaka si troverà coinvolto nella guerra, sperando di riuscire a mediare le varie posizioni e schierandosi infine al fianco di San, di cui si è innamorato. Un altro capolavoro di Miyazaki, rovinato – in parte – dal doppiaggio italiano.

La Principessa Mononoke: recensione del film
La storia de La Principessa Mononoke è ambientata nel periodo Muromachi (1392-1573), un’era considerata rinomatamente di transizione verso i primi bagliori dell’epoca moderna. Umani e dei al tempo coesistevano, insieme ai demoni, ma il periodo era caotico e confuso, privo di punti di riferimento. Miyazaki sceglie l’epoca Muromachi proprio con l’intento di creare un’atmosfera simile a quella che si respirava nel 1997, il tramonto del ventunesimo secolo, un’altra fase di transizione, anche se in altri luoghi e in altri tempi. Eppure le tematiche affrontate – quelle care al regista giapponese – sono più che mai attuali: la distruzione della natura ad opera di popoli ambiziosi, egoisti e senza scrupoli; le guerre, difficilmente utili, che popolano l’intero pianeta; l’amicizia e l’amore. La morale, in fondo, è facile da capire: l’uomo e la natura dovrebbero serenamente coesistere e bisognerebbe imparare a costruire, più che precipitarsi a distruggere. Ma c’è di più: se il mondo va a rotoli, non è detto che non esista una ragione per viverci ugualmente. Ashitaka era un condannato a morte, spinto solo dall’amore per il suo popolo e da una vana speranza di guarigione, eppure rinasce grazie a San. La voglia di proteggerla e di liberarla, nello stesso tempo, dalla condanna di una vita infelice (né donna né lupo, come spiega bene Moro) lo rendono un uomo se possibile più coraggioso, più valoroso e più assennato. Come direbbe il principe Emishi, “vedere cosa accade con occhi non velati dall’odio” ti dà una visione del tutto diversa delle azioni che si compiono. Eboshi, l’arrogante padrona della Città di Ferro, non riesce a liberarsi dalla sua avidità, nemmeno alla fine, come il doppiaggio italiano ci fa erroneamente dedurre. E su questo bisogna inevitabilmente puntare il dito contro la distribuzione italiana, che spesso pensando di far bene commette solo un terribile danno che colpisce tanto il regista quanto lo spettatore. Quando Eboshi dichiara “Oggi ho capito che la foresta è sacra e nessuno ha il diritto di profanarla”, in realtà nella versione giapponese esclamava un ben meno ‘pentito’ “Io ci rinuncio, non posso vincere contro gli stupidi”. Il finale lascia la porta aperta all’immaginazione o, se si vuole essere più precisi, ad un futuro inesplorato. Miyazaki sottolinea che la natura umana non è perfetta, che spesso l’amore incontra difficoltà insormontabili e spesso non ci si pente del male commesso, anche se ha portato solo distruzione. In fin dei conti, però, si va avanti lo stesso, senza un lieto-fine eclatante, ma con piccoli spiragli di luce. A dimostrazione che il mondo si sposta a passi infinitesimali e all’uomo basta poco per vivere il tempo che ha a disposizione il più felicemente possibile.

