IT: Welcome to Derry, recensione della serie horror che ci porta alle origini di Pennywise

La serie esordisce il 27 ottobre su Sky e NOW.

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C’è qualcosa di profondamente disturbante nel tornare a Derry. Non è solo una città: è un organismo vivo, che respira attraverso le sue fogne, che assorbe la paura e la restituisce sotto forma di mostri. Con IT: Welcome to Derry, la nuova serie targata HBO e Sky Exclusive, Andy Muschietti, Barbara Muschietti e Jason Fuchs ci riportano nel cuore oscuro del Maine, espandendo l’universo creato da Stephen King e approfondendo le radici di quel terrore che, da decenni, si insinua nell’immaginario collettivo.

Ambientata negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, la serie si propone come prequel dei film “IT” e “IT – Capitolo Due, e racconta la genesi dell’orrore che avvolge Derry molto prima che i “Perdenti” si uniscano per combattere Pennywise. Ma, come spesso accade nelle opere più riuscite ispirate a King, ciò che fa davvero paura non è solo il soprannaturale: è il modo in cui il male si manifesta nei rapporti umani, nelle disuguaglianze, nel silenzio complice degli adulti.

Il racconto si apre con una scena glaciale: un bambino di dodici anni, solo e spaventato, cerca di fuggire da un cinema, in cui si era infilato senza pagare il biglietto (per l’ennesima volta), ma finisce per salire sull’auto sbagliata. È un inizio che non risparmia nulla, un piccolo film nel film che condensa perfettamente l’essenza della serie — la paura dell’infanzia, il terrore dell’ignoto e il trauma che diventa eredità. Da quel momento in poi, IT: Welcome to Derry costruisce con lentezza ma precisione un mosaico di storie destinate a intrecciarsi, tutte collegate da un’unica, inesorabile domanda: da dove nasce il male?

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

IT: Welcome to Derry e i simboli di un incubo

Il cuore narrativo della serie ruota attorno a Leroy Hanlon (Jovan Adepo), maggiore dell’aeronautica americana appena trasferito con la famiglia nella cittadina di Derry. Sua moglie Charlotte (Taylour Paige) e il loro figlio Will sono pronti a iniziare una nuova vita, ma qualcosa, fin da subito, sembra fuori posto. La base militare in cui Leroy lavora è attraversata da segreti, zone interdette e rituali taciuti. Le stesse fondamenta su cui poggia la città sembrano costruite su un terreno contaminato — non solo in senso fisico, ma soprattutto morale.

Parallelamente, la serie segue Lilly (Clara Stack), una ragazza appena dimessa dal manicomio di Juniper Hill, che tenta di reinserirsi nella vita quotidiana della scuola. Al suo fianco, Ronnie (Amanda Christine), giovane studentessa nera che lotta contro i pregiudizi della comunità e contro l’ingiusta accusa rivolta al padre, proiezionista del cinema cittadino, sospettato della scomparsa del bambino visto nel prologo. Insieme a un gruppo di coetanei — Phil, Teddy, Pauly e, più avanti, Will e Rich — intraprendono una sorta di viaggio iniziatico, nel quale la paura diventa strumento di scoperta e resistenza.

Muschietti e Fuchs costruiscono un intreccio corale, in cui ogni personaggio incarna una forma diversa di vulnerabilità. Il male non è solo Pennywise (che ritorna con il volto inquietante di Bill Skarsgård), ma tutto ciò che permette alla sua presenza di proliferare: il razzismo, il dolore taciuto, la vergogna, l’abuso. L’horror diventa così linguaggio per raccontare la società, e Derry si trasforma nel simbolo perfetto di un’America spezzata tra la modernità e le sue colpe storiche.

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

Atmosfere e orrori quotidiani: la forza simbolica della serie

Visivamente, IT: Welcome to Derry è un piccolo gioiello di coerenza estetica. La fotografia richiama la luce lattiginosa e inquieta dei film di Muschietti, mentre la regia si concede tempi più dilatati, privilegiando l’attesa al jump scare. Il terrore non esplode, ma si insinua: nei corridoi umidi, nei sussurri dei tubi, negli sguardi sospesi degli adulti che fingono di non vedere.

A differenza dei film, qui l’orrore è anche politico. La serie riprende il tropo del “Magical Negro” solo per ribaltarlo, mostrando come i personaggi neri non siano più strumenti narrativi al servizio del destino dei bianchi, ma protagonisti consapevoli di un sistema corrotto. Derry diventa così una micro-America, una città-simbolo che riflette le sue contraddizioni: la segregazione, la paura del diverso, la violenza sistemica e il bisogno disperato di nascondere ciò che è scomodo.

Il rapporto fra adulti e bambini rimane il centro tematico del racconto, come nel romanzo di King: gli adulti di Derry vivono nell’autoinganno, incapaci di accettare l’esistenza del male, mentre i bambini — con la loro sensibilità e il loro coraggio — diventano gli unici a poterlo percepire e combattere. È una dinamica che la serie esplora con delicatezza, alternando momenti di tenerezza e di puro terrore. Lilly, in particolare, rappresenta il cuore emotivo della narrazione: fragile ma determinata, è l’eco più autentica di quella “innocenza perduta” che attraversa tutta la mitologia di IT.

Non mancano riferimenti alle origini mitiche di Pennywise, che qui assumono contorni più mistici e ancestrali. Le radici del male sembrano intrecciarsi con la violazione di terre sacre e con rituali antichi dimenticati: una lettura quasi spirituale dell’orrore, che amplia la mitologia di Derry e conferisce alla serie una dimensione più ampia e complessa rispetto ai film, riportando a schermo la vera natura di questo male così come l’aveva pensata e scritta King nel suo romanzo capolavoro.

IT: Welcome to Derry – courtesy of HBO

Oltre l’horror: il significato di un prequel necessario

Arrivati al termine degli otto episodi, IT: Welcome to Derry è una riflessione profonda sul concetto stesso di paura — personale, collettiva, storica. Se nei film di Muschietti la paura era un nemico da affrontare, qui diventa un’eredità: qualcosa che si tramanda, che plasma le generazioni e che solo la consapevolezza può disinnescare.

Il ritmo non è sempre uniforme: alcuni episodi centrali si concedono deviazioni forse troppo lente, ma nel complesso la serie mantiene una tensione costante, bilanciando il dramma umano e il soprannaturale. Il cast è straordinario nella coralità: Adepo e Paige regalano interpretazioni intense e credibili, mentre Clara Stack si impone come autentica rivelazione, capace di restituire tutta la vulnerabilità e la forza della sua giovane protagonista.

La regia di Muschietti, affiancata da quella di registi emergenti per gli altri episodi, mantiene una visione coerente e potente, attenta tanto al dettaglio visivo quanto alla psicologia dei personaggi. La colonna sonora, fatta di silenzi e dissonanze, accompagna perfettamente il viaggio nel buio, amplificando ogni fremito e invadendo con prepotenza la scena nelle molte sequenze spaventose e tremendamente divertenti.

IT: Welcome to Derry non si limita a spiegare l’origine di Pennywise, ma esplora quella parte di noi che gli ha permesso di esistere. È un racconto che parla di paura e di colpa, di innocenza e di rifiuto, di società e memoria. Non tutto funziona alla perfezione — qualche eccesso di didascalismo e un montaggio a tratti frammentato — ma la serie riesce comunque a catturare l’essenza del mondo kinghiano: quell’equilibrio instabile tra orrore e umanità, tra soprannaturale e realtà quotidiana.

Oltre ad essere sorprendentemente divertente, con la sua densità tematica e la capacità di fondere tensione, critica sociale e sentimento, Welcome to Derry si impone come uno dei progetti televisivi più ambiziosi dell’anno, e come un tassello indispensabile per comprendere non solo il mito di Pennywise, ma anche le ombre che continuano a nascondersi dentro di noi.

IT: Welcome to Derry
3.5

Sommario

IT: Welcome to Derry non si limita a spiegare l’origine di Pennywise, ma esplora quella parte di noi che gli ha permesso di esistere.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice e Direttore Responsabile di Cinefilos.it dal 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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