Linea d’Ombra Festival, Paolo Calabresi: “In Boris dovevo essere René Ferretti”

L'attore ospite a Salerno per presentare il suo libro, "Tutti gli uomini che non sono. Storia vera di una falsa identità" si racconta da Strehler e Biascica. Passando per Nicolas Cage

paolo calabresi

Tutti lo conoscono come il capo reparto elettricisti Augusto Biascica, una delle colonne della (fuori) serie cult Boris, che proprio oggi, 26 ottobre, torna con la sua quarta stagione nella sua nuova casa, la piattaforma streaming Disney+. Paolo Calabresi, ospite della quarta serata di Linea d’Ombra Festival Salerno, è però molto altro, come ha raccontato nel corso dell’incontro con il pubblico rispondendo alle domande del co-direttore artistico Boris Sollazzo, svelando però anche un aneddoto che risale alle origini della serie.

 

«In realtà io feci il provino per la parte di René Ferretti. Fu Giacomo Ciarrapico, uno dei tre autori di Boris, che subito dopo l’audizione mi disse “no, tu sei Biascica, tu farai Augusto Biascica”. Lì per lì ci rimasi anche male, ma perché ancora non avevo chiaro quanto Boris fosse e sia una serie assolutamente corale, in cui Renè è un centro a cui ruotano tutti gli altri in eguale misura».

Impossibile non ricordare nell’occasione il compianto Mattia Torre, geniale autore di Boris e di tante altre cose, mancato il 19 luglio del 2019 a soli 47 anni.

«Credo che la ragione per cui Boris non si è fatto per così tanto tempo sia stata proprio perché tutti volevano che Mattia avesse il tempo di fare altre cose quando si è ammalato, e si doveva sbrigare a farne, a cominciare da La linea verticale, che per me è un capolavoro assoluto e dove anche lì ho avuto la fortuna di partecipare con altri amici e colleghi. E gli spettacoli teatrali che adesso, tra l’altro, sono stati ripresi con la regia televisiva di Paolo Sorrentino, andranno in onda a novembre. Aveva bisogno di fare cose non da solo, non senza gli altri, ma di raccontare delle cose sue. E tutti noi gli avremmo dato volentieri anche molto altro tempo».

Ma la ragione per cui Linea d’Ombra ha invitato Paolo Calabresi era prima di tutto per parlare del suo romanzo (quasi) biografico, nonché d’esordio, “Tutti gli uomini che non sono. Storia vera di una falsa identità” (Salani editore, 2022).

«In realtà avrei voluto intitolarlo “L’uomo che non c’era”, purtroppo era già stato usato dai fratelli Coen e quindi non mi è sembrato il caso» ha raccontato l’attore-autore, che ha anche spiegato la genesi, dolorosa, di quanto narrato nel romanzo.

«Questo libro nasce da un periodo che ho realmente vissuto in cui ho pensato bene di fingermi persone realmente esistenti in situazioni reali, all’insaputa di tutti. Questa follia, che ho portato avanti per anni, era frutto di un precedente momento molto doloroso. Avevo perso entrambi i genitori a distanza di dieci giorni l’uno dall’altro, e poco dopo ho perso anche il mio padre artistico, Giorgio Strehler. Mi ero ritrovato completamente svuotato, senza più la voglia di fare il mio mestiere, ma lo facevo, perché avevo già una famiglia numerosa e non potevo non lavorare. Ma c’era qualcosa di spezzato in me. Finché, un giorno, nel gennaio del 2000, ero a Milano, stavo lavorando in uno spettacolo di Luca Ronconi, e la domenica c’era Milan-Roma a San Siro. I biglietti erano finiti, e allora decisi di mandare all’ufficio stampa del Milan un fax da parte di un sedicente agente di Nicolas Cage dicendo che era a Milano e che avrebbe avuto piacere di vedere la partita. Era la mattina del venerdì prima della partita. Il pomeriggio avevo i biglietti. E da lì è iniziato tutto».

Ed è raccontato nel libro, che non è una biografia tradizionale, ma ha una costruzione intrigante, partendo da uno psichiatra che nel corso di un congresso presenta un singolare caso di Sindrome da Personalità Multipla. Fa così ascoltare le registrazioni delle sedute del paziente Paolo C., attraverso le quali si scoprono le gesta nel corso degli anni del vero Paolo Calabresi che impersona Marilyn Manson, John Turturro e molti altri. Mentre questa sorta di terapia andava avanti, l’attore si accorgeva che c’era dell’altro dietro.

«Quella che all’inizio era una grande ubriacatura di recitazione folle, mi sono reso conto pian piano che era lo specchio di una società che cominciava a confondere in maniera seria il vero con il falso, usando dei filtri che oggi sono diventati all’ordine del giorno. Il confine tra la verità e la bugia cominciava a essere molto labile. Era il periodo in cui cominciavano i reality che di reality non avevano nulla, non ci poteva essere niente di più finto. A me irritava e man mano che andavo avanti con queste “installazioni” mi rendevo conto che stavo facendo una cosa profondamente giusta dal mio punto di vista e dal punto di vista di chi come me, aveva imparato il mestiere dell’attore in maniera seria».

Un mestiere che lo ha portato a recitare con i già citati Strehler e Ronconi, colossi della storia del teatro italiano, per farlo poi approdare al cinema, dove ha lavorato a classici moderni come la trilogia di Smetto quando voglio, il profetico Bentornato Presidente di Giuseppe Stati e Giancarlo Fontana, e scelto da grandi autori come Giuseppe Tornatore (La corrispondenza), Daniele Vicari (Diaz) e Marco Bellocchio, con cui ha lavorato nell’ultimo film del maestro di Bobbio, ancora in post produzione, La conversione. Dal 10 novembre Paolo Calabresi, oltre che su Disney+ con Boris 4, sarà al cinema con il musical diretto da Nicola Abbatangelo, appena presentato alla Festa del cinema di Roma, The Land of Dreams.

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