Il Bianco Il Giallo e il Nero: recensione del film di Sergio Corbucci

Il Bianco Il Giallo e il Nero

In Il Bianco Il Giallo e il Nero Il giovane samurai Sakura (Tomas Milian) si mette sulle tracce di un sacro pony che l’imperatore del Giappone ha inviato in dono ad una colonia giapponese nel vecchio west, ma che è stato rubato da alcuni falsi indiani per provocare una guerra contro i pellerossa stessi. Come riscatto i rapitori chiedono un milione di dollari custoditi in una cassa ed affidati, per la consegna, allo sceriffo Black Jack (Eli Wallach). Ma il bottino fa gola pure allo spregiudicato bandito svizzero Blanc de Blanc (Giuliano Gemma) che, per mettere le mani su di esso, stringe un accordo con lo sceriffo e Sakura, cercando però ovviamente di fregarli in ogni modo…

 

Analisi: Siamo nel 1974 quando Sergio Corbucci gira uno degli ultimi western italiani. Nella sua enorme carriera il regista romano ha spaziato nei generi più disparati, una carriera multiforme, contraddista da un enorme talento che gli permetteva proprio di sperimentare e cambiare genere con estrema versatilità. Uno degli ambiti nel quale ci ha sicuramente lasciato delle pietre miliari è sicuramente il western: un genere che gli italiani hanno “desunto” dalla tradizione prettamente americana popolata dal mito secessionista, gli indiani, la lotta per i territori, le carovane, i mormoni, i saloon, i banditi e gli eroi solitari e integerrimi alla John Wayne. L’ultimo western, il più “crepuscolare”, è Il Bianco Il Giallo e il Nero datato 1974 e che vede protagonisti tre glorie del genere: Eli Wallach, Tomas Milian e infine Giuliano Gemma, scomparso da pochi giorni e già compianta “faccia d’angelo” che ha segnato un genere con le sue interpretazioni di film memorabili come Una pistola per Ringo (1965) e I giorni dell’ira (1967).

Il Bianco Il Giallo e il Nero è una sorta di divertissement dalla trama improbabile, che mescola la cultura pop, una sorta di antologia del genere “spaghetti western”, con un occhio rivolto però verso il sottogenere dei “Fagioli western”, film dal sapere decisamente più comico come il filone inaugurato da Lo chiamavano Trinità (1970) ed epigoni.

Sicuramente l’aspetto che più colpisce è il gioco meta-cinematografico presente fin dall’inizio: la moglie di Black Jack (il cui nome già richiama un tipo di gioco d’azzardo) si “esibisce” in un delirante monologo costruito dagli sceneggiatori in modo tale da camuffare le citazioni di titoli di altri film western come delle invettive rivolte dalla signora al consorte. Ma il gioco non si esaurisce qui: le autocitazioni sono sparse in tutto il film, dalle tombe alle bare ridenti eredità del “Django” originale, oppure Wallach stesso che rifà il verso all’immortale “brutto” Tuco del film di Leone e Tomas Milian che anticipa le peripezie del “suo” cinese nel cult “delitto al ristorante cinese” improvvisandosi improbabile samurai nipponico dall’umorismo rabeleisiano e dalle enormi- ma esilaranti- difficoltà linguistiche.

Il clima farsesco della pellicola serve a separare definitivamente- come un ultimo, estremo, “canto del cigno” di un genere- il realismo dalla sua trasfigurazione finale in leggera e briosa parodia, camminando però in bilico su di un sottilissimo filo teso tra due entità apparentemente così distanti e distinte.

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Ludovica Ottaviani
Ex bambina prodigio come Shirley Temple, col tempo si è guastata con la crescita e ha perso i boccoli biondi, sostituiti dall'immancabile pixie/ bob alternativo castano rossiccio. Ventiquattro anni, di cui una decina abbondanti passati a scrivere e ad imbrattare sudate carte. Collabora felicemente con Cinefilos.it dal 2011, facendo ciò che ama di più: parlare di cinema e assistere ai buffet delle anteprime. Passa senza sosta dal cinema, al teatro, alla narrativa. Logorroica, cinica ed ironica, continuerà a fare danni, almeno finché non si ritirerà su uno sperduto atollo della Florida a pescare aragoste, bere rum e fumare sigari come Hemingway, magari in compagnia di Michael Fassbender e Jake Gyllenhaal.