Con Avatar: Fuoco e cenere, James Cameron non si limita a proseguire una saga: la radicalizza, la mette alla prova, la spinge in una zona emotiva e morale più aspra. Il film, dal 17 dicembre nelle sale distribuito da The Walt Disney Company Italia, è il terzo capitolo di quell’avventura cominciata nel 2009 alla scoperta di Pandora. Se La via dell’acqua era un film sull’unione, sulla necessità di imparare a stare insieme e riconoscersi nell’altro, un film in cui tutto tornava e fluiva, come l’acqua, appunto, questo terzo capitolo ne è il perfetto contraltare.
Avatar: Fuoco e cenere è un racconto sull’odio, su come nasce spesso dal dolore della perdita, su come questo odio non controllato riesca a contaminare tutto ciò che tocca, come una malattia, ma anche su come sia capace di mettere insieme inquietudini e vendette, secondo il vecchio adagio che “il nemico del mio nemico è mio amico”. Perché si sa che è più facile alimentare la rabbia che calmarla. E ancora una volta, Cameron parla di Pandora, di Na’vi e di tribù, parlando allo stesso tempo a un mondo diviso, che si indigna sui social, nella solitudine delle stanze, nel buio della ragione, rifiutando l’unica semplice verità che il franchise porta avanti da 16 anni: siamo tutti connessi. E per una volta invoca l’aiuto dello spettatore stesso, chiedendogli di trovare il senso ultimo alla sua storia.
Un conflitto totale che attraversa Pandora
La storia riprende pochi istanti dopo la conclusione de La via dell’acqua. La RDA non è sconfitta: si riorganizza, rilancia, torna su Pandora con l’obiettivo finale di renderla abitabile per un’umanità che ha ormai distrutto la Terra. Jake Sully è di nuovo un comandante, un guerriero che conosce una sola risposta alla minaccia: la guerra. Ma questa volta il conflitto non è solo esterno. È interno, familiare, emotivo. La morte di Neteyam pesa come un macigno su ogni scelta, soprattutto su Neytiri, sempre più divorata da un dolore che si trasforma in odio puro, incontrollabile.
Cameron costruisce un racconto che si muove su più fronti: il ritorno di Quaritch, ora in forma di Recom, il legame sempre più complesso con Spider, la colpa che consuma Lo’ak, il mistero che avvolge Kiri, e ancora una volta l’incapacità dei padri di guardare ai figli come a persone autonome e capaci di prendere decisioni. Ma chiaramente Cameron non si accontenta di riportarci su Pandora, come accaduto ne La via dell’Acqua, inventa nuovi paesaggi, culture e personaggi, ci presenta il famigerato popolo della Cenere, guidato dalla loro regina Varang, letale e irresistibile. Vivono in un mondo devastato da un’eruzione vulcanica, una ferita aperta inflittagli dalla stessa Eywa, secondo la loro mitologia, un paesaggio annerito che riflette lo stato d’animo di chi lo abita. L’altro volto di Pandora, che non è più solo un eden da difendere, ma un territorio lacerato, attraversato da cicatrici visibili e invisibili.
Personaggi al centro, tra dolore, colpa e rabbia
Rispetto ai capitoli precedenti, Avatar: Fuoco e cenere è un film sorprendentemente più concentrato sui personaggi che sull’ambientazione. Il mondo resta vastissimo, ma Cameron sceglie di scavare nei volti, nei silenzi, nei conflitti interiori, talvolta anche a discapito della storia stessa, che risulta frammentata, a volte disordinata. Il lavoro sull’espressività – reso possibile da una tecnologia di performance capture ancora più impressionante – è semplicemente straordinario: ogni emozione passa dagli occhi, dai movimenti minimi, dai respiri. I volti degli attori sono chiaramente rintracciabili, questa volta più che mai, sotto il blu brillante, l’acquamarina, il grigio-blu della pelle Na’vi.
E così, riconosciamo alla perfezione tutti i tratti di Sam Worthington e Zoe Saldana, che offrono le loro interpretazioni più intense della saga, dando corpo a due figure spezzate che reagiscono al lutto in modi opposti ma ugualmente distruttivi. Sigourney Weaver, nei panni di Kiri, continua a essere il cuore spirituale del racconto, mentre Britain Dalton (Lo’ak) e Jack Champion (Spider) portano in scena adolescenze fragili, segnate da colpa, identità incerte e scelte impossibili. Interessante il compito di Stephen Lang in questo capitolo, che si trova ad arricchire Quaritch di nuove sfumature, rendendolo un antagonista tridimensionale, capace di incarnare non solo la violenza coloniale, ma mettendo in campo anche un rapporto ambiguo e doloroso con Spider.
E poi c’è Varang. Oona Chaplin ruba la scena con una presenza magnetica, elegante e feroce. La sua non è una cattiveria gratuita, ma una rabbia stratificata, politica, quasi inevitabile. I suoi movimenti sono predatori, il suo fascino irrefrenabile, il suo sguardo incendiario. Cameron non giustifica le sue azioni, ma ne comprende le strade. E questa comprensione rende il conflitto ancora più potente. Non ci troveremo mai a prendere le parti di Varang, ma dentro di noi sappiamo che le sue ragioni sono valide.
Tecnologia e spettacolo come linguaggio emotivo
Se visto che Cameron è il maestro indiscusso dello spettacolo, Avatar: Fuoco e cenere rappresenta un nuovo salto in avanti. La messa in scena è monumentale, anarchica, a tratti persino sperimentale. Terra, acqua, cielo e ora fuoco diventano spazi di battaglia e di meraviglia, in sequenze che superano per intensità e scala tutto ciò che la saga aveva mostrato finora. L’azione è più terrestre, più fisica, più brutale, e senza rinunciare ai momenti di pura poesia visiva, vero e proprio marchio di fabbrica, il film fa davvero sentire la cenere sotto i denti, il fuoco sul viso, la minaccia incombente.
Abbiamo già detto che Avatar: Fuoco e Cenere è il riflesso perfetto di La via dell’Acqua. Tanto equilibrato e “rotondo” il secondo, quando spigoloso e estremo il primo, i due film presentano moltissimi aspetti comuni e scenari già visti, tuttavia James Cameron non sembra aver paura di ripetersi. I temi che aveva già declinato nei capitoli precedenti e anche in tutta la sua filmografia, vengono attraversati con una potenza formale che li rende di nuovo urgenti, tristemente attuali. L’odio, il colonialismo, la distruzione ambientale, il trauma: tutto viene filtrato attraverso un linguaggio cinematografico che non separa mai spettacolo e emozione. Fuoco e cenere è un film violento come il fuoco che lo attraversa, ma anche profondamente umano, capace di commuovere e travolgere.
Giustamente dedicato al compianto Jon Landau, questo terzo Avatar conferma la saga come una vera epopea universale. Non solo un evento visivo, ma un racconto che cresce, si incupisce, matura. E che, ancora una volta, ci ricorda perché James Cameron resta uno dei pochi autori in grado di trasformare il cinema mainstream in un’esperienza totalizzante.
Avatar: Fuoco e cenere
Sommario
Questo terzo Avatar conferma la saga come una vera epopea universale. Non solo un evento visivo, ma un racconto che cresce, si incupisce, matura.
