Dall’inquietudine brillante della Settimana Internazionale della Critica di Venezia al debutto italiano su IWONDERFULL – Prime Video Channels dal 9 dicembre, Peacock – Un uomo (quasi) perfetto arriva come un piccolo terremoto emotivo travestito da commedia caustica. L’opera prima di Bernhard Wenger, scelta dall’Austria come Candidato Ufficiale agli Academy Awards® 2026 per la categoria “Miglior Film Internazionale”, si struttura come un racconto che allarga progressivamente la sua cornice: parte da un’idea che sfiora l’assurdo — un uomo che affitta sé stesso come amico, fidanzato, figlio perfetto — per farsi poi specchio spietato di una società imprigionata nell’apparenza.
Wenger prende spunto dal fenomeno reale delle agenzie giapponesi “Rent-A-Friend” per mettere in scena un personaggio che vive in uno stato di finzione costante. Matthias, interpretato da un Albrecht Schuch sorprendentemente misurato e magnetico, è un uomo che ha perso il contatto con la propria essenza, prosciugato da un mestiere che lo obbliga a essere tutto per tutti, tranne che per sé stesso. Sin dalle prime sequenze — un misterioso golf cart in fiamme, un intervento eroico privo di contesto — il film mostra con chiarezza la sua natura duplice: realistico e surreale, tenero e ironicamente crudele, come se una vena alla Östlund e influssi di black comedy nordica si mescolassero a una riflessione più calda e malinconica sull’identità.
Satira sociale e dolcezza nascosta: l’equilibrio di un racconto tragicomico
A colpire, nella scrittura di Wenger, è la capacità di trattenere la risata e la commozione nella stessa inquadratura. Proprio come nel cinema scandinavo a cui si ispira, la commedia non è mai semplice superficie: ogni ironia spalanca una fenditura emotiva. L’universo in cui Matthias si muove — dalle case minimalistico-patinatissime ai clienti che desiderano più che un accompagnatore, un tassello mancante della propria immagine pubblica — assomiglia a una distorsione lieve ma palpabile della realtà.
Il regista si diverte a decostruire i codici di questa società iper-performativa, dove ogni gesto è un’auto-narrazione, ogni appuntamento un micro-progetto di autopromozione. È la stessa logica che guida i clienti di Matthias: c’è chi ha bisogno di un fidanzato colto da esibire agli amici, chi necessita di un figlio ideale per conquistare un potenziale investitore, chi vuole semplicemente un sostegno emotivo pronto all’uso.
E tuttavia, come spesso accade in opere che oscillano tra il sarcasmo e la delicatezza, Peacock evita la derisione dei suoi personaggi. Wenger non giudica, osserva. E in questo approccio c’è una vibrazione profondamente umana: le persone che affittano Matthias non cercano solo un ruolo, ma una tregua dal giudizio altrui, dal peso sociale dell’inadeguatezza. È in quei piccoli dettagli — una battuta trattenuta, uno sguardo sfuggente, una pausa troppo lunga — che il film rivela la sua anima: una commedia che ride dell’assurdità collettiva, ma non delle fragilità individuali.

Albrecht Schuch e l’arte di interpretare il vuoto: un protagonista che evolve nel caos
L’interpretazione di Albrecht Schuch è il cuore, il motore e il controsenso vivente di Peacock. L’attore, che ha dichiarato di essersi ispirato al protagonista di Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher, incarna un Matthias che sembra evaporare mentre lavora. Ogni suo gesto è calibrato, ogni smorfia pare studiata per far sentire l’altro visto e ascoltato. Ma è proprio questa perfezione che diventa, progressivamente, la sua condanna.
Schuch eccelle quando la maschera comincia a incrinarsi: gli occhi si riempiono di micro-esitazioni, la postura non è più impeccabile, i movimenti assumono una tensione quasi fisica, come se il personaggio si sgretolasse in diretta. L’ansia crescente, la confusione identitaria, l’incapacità di distinguere il lavoro dalla vita reale si manifestano con un realismo doloroso, amplificati da una messa in scena che predilige simmetrie ordinate e atmosfere levigate — una perfezione visiva che rende ancora più evidente il disordine interiore del protagonista.
Quando la sua fidanzata Sophia lo lascia dicendogli che “non sembra più reale”, Matthias precipita in un tentativo disperato di ritrovare il proprio centro. Dalle sessioni di yoga ai nuovi incontri, fino alla gestione paradossale di una casa che non percepisce davvero come sua, tutto contribuisce a disorientarlo. È un percorso che Schuch restituisce con un’intensità mai eccessiva: non cerca la caricatura dell’uomo in crisi, ma la sua vulnerabilità più elementare, e così facendo regala al film la sua nota più commovente.

Identità, alienazione e speranza: perché Peacock parla del nostro tempo
Alla fine, la forza di Peacock – Un uomo (quasi) perfetto sta nella sua capacità di essere una satira riconoscibile, ma anche un racconto intimo sul bisogno di autenticità in un’epoca che normalizza la performance continua. Matthias diventa il simbolo di un’intera generazione di individui che costruiscono versioni ottimizzate di sé stessi — sui social, sul lavoro, nelle relazioni — fino a perdere il filo del proprio io.
Eppure Wenger non rinuncia mai alla tenerezza: il suo film non è una condanna, ma un invito a riprendersi lo spazio per sbagliare, per essere imperfetti, per essere semplicemente reali. L’arco narrativo, pur attraversato da momenti grotteschi e da un umorismo affilato, si apre infine a un’idea di rinascita. Un ritorno alla spontaneità che, per Matthias, significa rischiare di deludere, ma anche imparare a scegliere sé stesso.
È questa ambivalenza, questo miscuglio di malinconia e speranza, che rende Peacock un film sorprendentemente caldo nonostante l’apparente freddezza formale. Un’opera che parla del nostro presente con lucidità, ma che mantiene uno sguardo affettuoso sui suoi personaggi. Un piccolo gioiello che, grazie a IWONDERFULL, arriva finalmente al pubblico italiano con la forza di un racconto necessario: perché ci ricorda che non basta “sembrare” perfetti per esserlo.
Peacock – Un uomo (quasi) perfetto
Sommario
È questa ambivalenza, questo miscuglio di malinconia e speranza, che rende Peacock un film sorprendentemente caldo nonostante l’apparente freddezza formale.
