Città in fiamme: la recensione della serie Apple Tv+

città in fiamme

La politica di Apple TV+ di portare sul piccolo schermo trasposizioni di romanzi di successo continua con Città in fiamme, ispirato dall’omonimo romanzo d’esordio di Garth Risk Hallberg pubblicato nel 2015. La storia ruota intorno a un crimine: una giovane donna viene trovata a Central Park in fin di vita, colpita da un proiettile. Chi le ha sparato? L’indagine della polizia coinvolge ben presto i personaggi più disparati, alcuni appartenenti alla scena musicale underground della Grande Mela ma anche esponenti estremamente elevati dell’alta società della metropoli.

 

Città in fiamme, l’ambientazione della serie

I creatori di Città in fiamme Josh Schwartz e Stephanie Savage hanno scelto un nuova ambientazione temporale rispetto al testo letterario di partenza, passando dagli anni ‘70 al 2003. Questo ha decisamente semplificato i problemi di messa in scena che una ricostruzione d’epoca avrebbe comportato, rivelandosi al tempo stesso una mossa piuttosto efficace per creare l’atmosfera giusta della serie. La New York in cui si dipanano infatti gli eventi che ruotano intorno al crimine risulta una città ostile, pervasa da un senso di minaccia incombente. Il trauma dell’11 settembre 2001 risulta ancora tangibile nelle strade che questa serie mostra, arterie notturne e feroci di un enorme girone infernale in cui le anime perse dello show si aggirano quasi senza meta.

Questo si presenta decisamente come il pregio migliore di Città in fiamme, produzione che altrimenti possiede poche frecce nell’arco al fine di intrattenere il pubblico. Il doppio universo in cui i personaggi principali sono relegati non si fonde mai pienamente in una narrazione omogenea, e questo rende Città in fiamme una serie altalenante, la quale non possiede un vero centro tematico, o meglio indebolisce eccessivamente la detection principale raccontando le vicende e i rapporti tra figure piuttosto stereotipate.

Il dramma non coinvolge

Il dramma che i personaggi principali vivono risulta in molti momenti piatto, non emotivamente coinvolgente. Questo non aiuta interpreti come Jemima Kirke, Ashley Zukerman o John Cameron Mitchell a esprimere il meglio delle proprie potenzialità. Il che alla fine risulta un errore piuttosto evidente poiché sono proprio i due poliziotti incaricati delle indagini la cosa maggiormente interessante di Città in fiamme: lo sviluppo delle psicologie del detective Parsa (Omid Abtahi) e del detective McFadden (Kathleen Munroe) risulta scandito con precisione.

Quando lasciano entrare  i loro problemi personali e una vita privata non sempre appagante dentro il lavoro che stanno svolgendo per  scoprire il colpevole, ecco che diventano figure drammatiche di rilievo, decisamente meglio raccontate e meno superficiali rispetto a quelle che dovrebbero in teoria trainare storia ed attenzione del pubblico. L’alchimia tra Abtahi e Munroe poi permette loro di sviluppare due personalità molto diverse che interagiscono con efficacia proprio in virtù di tali differenze. La coppia di investigatori diventa in questo modo un altro motivo valido per vedere Città in fiamme.

Città in fiamme non convince fino in fondo

Probabilmente il materiale di partenza non era facilissimo da trasporre in un prodotto seriale, rimane comunque il fatto che Città in fiamme rimane troppo sfilacciato e disomogeneo per convincere pienamente. Allo stesso tempo però questo non significa che non abbia alcuni punti di interesse: come già scritto l’ambientazione temporale e spaziale di una New York post-attacco alle Torri Gemelle funziona a dovere, così come la trama legata alle indagini riguardanti il crimine che fa partire la vicenda. Il resto però è un mix mal amalgamato di storie e personaggi già visti, già delineati con maggiore forza o originalità da qualche altra parte. Peccato, le premesse per uno show avvincente potevano esserci…

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