The Gilded Age stagione 2: recensione della serie di Julian Fellowes

Il papà di Downton Abbey torna a raccontare i suoi drammi in costume, tra ricercatezza formale, impegno sociale e leggerezza.

the gilded age stagione 2 recensione

The Gilded Age stagione 2, la serie di Julian Fellowes (Downton Abbey, Belgravia) disponibile dal 30 ottobre su NOW, torna a farci immergere nell’opulenta New York del XIX secolo. In mezzo a un periodo non certo semplice per la nostra contemporaneità, questa serie, sfarzosa, in costume, tutto sommato leggera nonostante alcuni approfondimenti su temi ancora oggi attuali, offre una piacevole evasione in un’epoca in cui i problemi erano discussi mentre si giocava a tennis a Newport.

The Gilded Age stagione 2, la trama principale

In quel contesto storico e sociale, la Guerra Civile è appena finita, e la seconda stagione si concentra su un tipo differente di battaglia: il mecenatismo e il prestigio tra l’Accademia di Musica dell’establishment e il nuovo Metropolitan. Bertha Russell (Carrie Coon), una newyorkese nuova-ricca, si scontra con la grande dama Caroline Astor (Donna Murphy), mentre Marian Brook (Louisa Jacobson) cerca di trovare il suo posto come insegnante d’arte, all’interno di una famiglia benestante e di un contesto sociale che non la vorrebbe mai impegnata in alcun tipo di lavoro. La trama si dipana in maniera fluida, tra lo sfarzo della messa in scena e le contrapposizioni tra gli status sociali che di volta in volta prendono la scena, offrendo una visione affascinante dell’epoca.

L’importanza dei temi sociali

Questa nuova stagione fa un passo in avanti nell’esplorare le dinamiche sociali e i problemi reali del tempo. Attraverso il personaggio di Peggy (Denée Benton), vediamo come l’emancipazione influisca sulle vite della comunità black, toccando questioni di grande importanza. Sorprendentemente, la serie racconta anche come George Russell (Morgan Spector) ha costruito la sua fortuna, sfruttando principalmente il lavoro di altri. In un’epoca in cui lo sciopero degli attori di Hollywood è ancora in corso e il ricordo di quello degli sceneggiatori un ricordo freschissimo, The Gilded Age stagione 2 concentra una delle sue tante trame proprio su una disputa legata allo sfruttamento sul posto di lavoro, un cambiamento significativo rispetto alla tendenza della prima stagione a evitare i problemi del mondo reale e l’eccessiva storicizzazione dei conflitti sociali.

Questi temi sono un tentativo ammirevole di Fellowes di affrontare le implicazioni della sua ambientazione storica. L’Età dell’Oro è spesso associata all’oligarchia e all’accumulo di ricchezza, ed è giusto che una serie con questo nome non ignori completamente queste tematiche. Tuttavia, mentre Peggy rappresenta un tentativo di dare voce alle preoccupazioni delle persone nere, il suo personaggio guida comunque una storyline che si muove ai margini delle altre, senza intrecciarle mai profondamente. La serie riconosce che per Peggy è molto più difficile superare le barriere sociali rispetto a Bertha, ma accomuna comunque i due personaggi in una dualità ideale per la quale le due donne affrontano il pregiudizio per la loro condizione particolare.

the gilded age stagione 2Associazioni dissonanti e ardite

Più la serie dà peso a queste sotto-trame sociali, più sembra sforzarsi di unificarle in una narrazione coerente. Ad esempio, la parentesi di Peggy a Tuskegee, in Alabama, e del suo scontro con il razzismo reale, molto meno violento in città che in provincia, viene messo in parallelo con le liti delle signore ricche per i favori di un ospite di rilievo in occasione di una serata di gala. Un’associazione molto ardita, quasi stridente a causa della giustapposizione di un problema reale di violenza razziale e il frivolo tentativo di accaparrarsi l’ospite più distinto.

La seconda stagione offre anche un’evoluzione dei personaggi principali. George Russell, inizialmente ritratto come un manipolatore spietato, viene reso più complesso e suscettibile alle richieste dei lavoratori, alle quali alla fine cede, dopo essere entrato in contatto con la loro umanità. La serie cerca di bilanciare il conflitto tra lavoro e capitale, ma a volte sembra che gli eventi vengano diluiti, per evitare un vero e proprio conflitto tra le parti che, nel tono generale della serie, stonerebbe.

Una riflessione sul cambiamento, questa volta poco a fuoco

In teoria, The Gilded Age era concepita come una riflessione sul cambiamento sociale, ma a volte sembra che i conflitti tra i personaggi siano più una questione di narcisismo di piccole differenze. La serie cerca di enfatizzare la mobilità sociale, ma sembra lottare nel bilanciare i suoi vari elementi, spaziando tra distrazione leggera e insegnamento storico. Etichetta e disuguaglianza sembrano avere lo stesso peso nell’economia del racconto, ma la serie potrebbe beneficiare da una maggiore attenzione alle dinamiche sociali dell’epoca e ai sistemi che perpetuavano la ricchezza.

A fronte di un valore produttivo altissimo, che si manifesta principalmente nei costumi e nella scenografia, The Gilded Age stagione 2 offre un’immersione affascinante nell’America del XIX secolo, ma a volte fatica a mantenere una narrazione coerente tra i diversi temi sociali e le sottotrame romantiche. Si avverte, infine, in maniera prepotente la nostalgia di Downton Abbey, lo show di maggiore successo di Fellowes: sia alcune scelte narrative che registiche e musicali riecheggiano dei fasti dello show inglese, che però non trova un avversario di pari livello nel cugino americano.

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Chiara Guida
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Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.
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