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Sesso, carcere e violenza. L’ultima, riuscita variante all’equazione preponderante del mondo delle serie tv moderne e più che moderne che si vedono (ufficialmente) in streaming su internet. All’irrinunciabile componente sessuale e alla quotidiana dose di violenza richiesta dall’audience, si aggiunge una variabile affatto inedita, eppure trattata secondo canoni del tutto nuovi: il carcere.

 
 

Perché Orange is the new black è un dramma carcerario, certo, ma è anche e soprattutto un dramma al femminile. Una sorta di commedia oscura, color divisa carceraria piuttosto che nera. Color arancione, per l’appunto. Una orange comedy (black comedy ndr), potremmo infine definirla, se è vero che questo colore si sostituisce al nero. Ma tanto ormai siamo entrati nel ragionamento. Si parlava di dramma, prima, e di commedia. Meglio ancora, di dramedy. La radicata tendenza alla commistione (non solo) di genere che la moderna e modernissima realtà televisiva ha imparato a propinare al suo pubblico, fa sì che una trama, di per sé serissima e drammatica, venga costantemente stemperata da un racconto corale che alterna momenti di profondità e sconvolgimento interiore a snodi impostati sui meccanismi della comicità leggera e a tratti sentimentale.

Lo spettatore, soprattutto nel corso degli episodi iniziali della prima stagione, viene insieme spiazzato ed esaltato da un cambio di registro continuo, grazie al quale l’immaginario della prigione di Stato che ne scaturisce risulta destrutturata, ribaltata perfino. Il luogo del massimo risentimento, della rivalsa e della vendetta che cova e si consuma dietro le sbarre diventa a sorpresa il luogo della solidarietà e della richiesta d’aiuto. Il filone “classico” della rabbia e della cattiveria, comunque, prosegue per sentieri tutt’altro che sotterranei, realizzandosi frequentemente in manifestazioni di egoismo nei confronti di chi commette o ha commesso un errore. Una struttura così “mista”, che trascende continuamente i confini stabiliti di dramma e commedia, di certo troverà facili detrattori in quella fetta di pubblico alla ricerca di un prodotto più crudo e diretto. Ma non è questa la missione di Orange is the new black.

Orange is the New Black 4

Non si esagererebbe se si dicesse che questo show si configura come il figlio, o meglio, la figlia naturale del network Netflix, la società statunitense di streaming online on demand che negli ultimi anni ha offerto prodotti di indiscutibile qualità e viralità. La sfida dell’alternativa alla distribuzione episodica a scadenza settimanale si può dire più che vinta, stravinta. Basti pensare al successo clamoroso di serie come House of Cards e Arrested Development – Ti presento i miei.

La serie ideata da Jenji Kohan fin dal primo episodio accompagna lo spettatore fin dentro il midollo della vicenda, tra espedienti meta televisivi (il personaggio che parla dritto in camera come il Frank Underwood di Kevin Spacey in House of Cards) e script “coraggiosi” che legano insiemi svariati piani narrativi e attanziali. Si diceva della non-novità dell’elemento carcerario, ingrediente principale di quella che a posteriori si potrebbe definire l’archetipo dei drammi carcerari nella moderna serialità televisiva: OZ. Lanciata da una HBO destinata a grandi cose nell’ormai lontano 1997 (sembra un secolo fa), questa serie ha rappresentato uno dei primi pionieristici passi verso la più che mai contemporanea nobilitazione della TV narrativa, poco o per niente disposta a recitare la parte del parente povero nei confronti del cinema.

Il confronto è, come si dice, d’obbligo. Ma questa non è OZ. E a dirlo non siamo noi, ma uno degli stessi protagonisti dello show, la guardia carceraria Sam Healy interpretata da Michael J. Harney. “This isn’t OZ” dice appunto rivolgendosi alla protagonista Piper Chapman (Taylor Schilling), durante il loro primo incontro nel primo episodio. Quella che si dice una partenza col botto. E radicalmente diversa da quella decisamente più dura di OZ, privo (quasi) del tutto di quell’umorismo nero (o arancione, che dir si voglia) che invece caratterizza univocamente Orange is the new black.

Orange is the New Black 2La suddetta commistione di serio e di faceto finisce con l’esaltare anche il coinvolgimento dello sguardo. L’ingresso in prigione di Piper è l’ingresso di un qualunque spettatore “normale”, stordito dai luoghi comuni sulle carceri e dall’inadeguatezza alle sue leggi. La sua divisa arancione è la nostra, come lo sono le sue paure e il suo modo di fare impacciato. L

a visione del mondo dietro le sbarre è filtrata dagli occhi sensibili e ingenui di Piper, che col passare del tempo (e degli episodi) ci offre un’evoluzione – forse un po’ tardiva – del suo personaggio, sviluppando una rabbia mista a crudeltà e arrivando in chiusura di stagione ad aggredire Pennsatucky. Merito anche del continuo dialogo di lei con il suo fidanzato Larry (Jason Biggs), che simboleggia lo scambio celato e taciuto tra i due mondi apparentemente inconciliabili della prigione e del mondo di “chi sta fuori”. Ma ben presto il punto di vista privilegiato si trasforma in “corale”. L’attenzione transita da Piper a una gamma di personaggi ben costruiti e presentati, come raramente si può ammirare nell’ambito di uno show di “soli” 13 episodi. Le storyline delle singole carcerate si dividono, dal punto di vista narrativo, tra il presente della prigionia e il passato di libertà, attraverso flashback ben calibrati (anche rispetto ai continui “andirivieni” nella vita di Piper).

Le varie punte di questa costellazione umana in “rosa” appaiono per la stragrande maggioranza come vittime innocenti di un caso beffardo e ingiusto, moderne “inette” in senso sveviano che hanno pagato i loro sbagli o la loro “sfortuna” con la libertà. L’eccezione che conferma la regola è la co-protagonista Alex Vause (Laura Prepon), ex fidanzata di Piper con un passato famigliare difficile, finita nello stesso carcere di Piper per aver fatto parte di un cartello internazionale di droga. Lei appare colpevole, consapevole e (potenzialmente) disposta a ricommettere l’errore una volta uscita. Curiosità: la bella Laura Prepon era stata inizialmente contattata per interpretare il ruolo di Piper, salvo poi essere “dirottata” da Kohan su quello di Alex. Una mossa vincente, visto che questo personaggio si configura prepotentemente come i meglio costruiti dell’intera serie, svestita (è il caso di dirlo) del perbenismo e del “rosa” delle donne che le stanno intorno.

Orange is the New Black 3Uno show che va oltre una semplice scena di nudo sotto la doccia o di uno spento affresco di un mondo fatto solo di cattiverie e di rapporti lesbo (caricati di significati ulteriori dalla rappresentazione lesbo-fobica e affatto felice dei personaggi maschili).

In conclusione Orange Is The New Black è senza dubbio un ottimo prodotto televisivo. Parliamo comunque di una nave non prive di alcune falle da tappare, col rischio perenne di riempirsi d’acqua da un momento all’altro. Nonostante l’elevato numero di leggerezze nella forma, la “ciccia”, come si dice, c’è tutta e offrirà numerosi spunti interessanti nel corso della seconda stagione, che la Netflix distribuirà a partire dal prossimo 6 giugno. La lotta per mantenere la propria dignità (più che riconquistare la libertà) dovrà passare necessariamente attraverso una maggiore caratterizzazione di tutti i personaggi. Manca davvero poco. Stay orange!

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