Asher, film del 2018 diretto da Michael Caton-Jones, segna un interessante ritorno del regista britannico a un cinema più essenziale, quasi da camera, dopo un percorso variegato che lo ha visto affrontare generi e registri differenti, da Rob Roy a The Jackal. Lontano dai fasti hollywoodiani dei suoi lavori più noti, Caton-Jones costruisce con questo film un noir crepuscolare, asciutto, intimo, che si muove tra i codici del thriller e del dramma psicologico. Il film racconta la storia di un sicario ormai in là con gli anni che si trova, inaspettatamente, a desiderare un riscatto esistenziale proprio mentre il suo mondo inizia a sgretolarsi.
A dare volto e corpo al protagonista troviamo un intenso Ron Perlman, che interpreta Asher con un equilibrio calibrato di durezza e vulnerabilità. Accanto a lui, Famke Janssen regala una prova delicata nel ruolo di Sophie, una donna che entra inaspettatamente nella vita del killer, offrendo una possibilità di redenzione. Il cast si completa con attori solidi come Richard Dreyfuss, Peter Facinelli e Jacqueline Bisset. La sceneggiatura, firmata da Jay Zaretsky, privilegia i silenzi e i gesti rispetto ai dialoghi esplicativi, costruendo così una narrazione che punta all’atmosfera più che alla tensione tradizionale.
Il film si inserisce nel solco di un cinema neo-noir esistenziale, vicino per temi e stile a titoli come A Beautiful Day (You Were Never Really Here) di Lynne Ramsay o The American con George Clooney. Come in quei film, anche in Asher la figura del killer diventa una metafora per riflettere sull’identità, il tempo che passa e la possibilità di cambiare. Ma mentre questi elementi si intrecciano alla trama con sobrietà, il film si avvia verso un finale che pone interrogativi profondi e inaspettati. Proprio il finale sarà oggetto di analisi e spiegazione nei paragrafi successivi dell’articolo.

La trama di Asher
Protagonista del film è un ex agente del Mossad, Asher (Ron Perlman), che ha passato tutta la sua vita a svolgere incarichi da sicario per il boss Avi (Richard Dreyfuss). Stanco di dover uccidere per mantenersi, privo ormai di illusioni su un possibile futuro migliore e con il corpo che inizia a cedere, Asher accetta gli ultimi tre lavori da Avi prima di ritirarsi del tutto da quella vita. Ma a causa di un improvviso svenimento un colpo va storto ed è però così che il killer incontra la bellissima insegnante di danza Sophie (Famke Janssen).
I due si conoscono per caso e Asher, sebbene non possa condividere nulla del suo passato violento e solitario, è deciso per la prima volta nella sua vita a non voltare le spalle a qualcosa di buono e puro come l’amore. Quando però le cose vanno male durante un colpo insieme al suo apprendista Uziel (Peter Facinelli), Asher si ritrova con un bersaglio sulla testa, che minaccerà di portargli via tutto ciò che ha appena scoperto di voler proteggere. Costretto a fare i conti con le sue scelte, dovrà affrontare una resa dei conti definitiva.
La spiegazione del finale
Nel terzo atto di Asher, la tensione accumulata nel corso del film giunge a un punto di rottura. Dopo una lunga carriera come sicario per conto di un’organizzazione criminale, Asher capisce che il suo tempo è finito. La scelta di disobbedire agli ordini, legata al crescente desiderio di una vita diversa accanto a Sophie, lo rende però un bersaglio. Quando l’organizzazione decide di eliminarlo, Asher si ritrova in una spirale di violenza che culmina in un confronto diretto con il suo ex mentore e amico Avi. In un combattimento finale, carico di silenzi e colpi lenti ma definitivi, Asher riesce ad avere la meglio, ma il prezzo è altissimo.

La sua sopravvivenza resta incerta, il suo corpo ferito e la sua mente logorata. Nel finale vero e proprio, Asher torna da Sophie. Il loro ultimo incontro è segnato da un silenzio intenso e da uno sguardo che dice più di qualsiasi parola. Non c’è lieto fine esplicito, né una chiusura rassicurante: il film si conclude con una cena in casa di Sophie, dove Asher si presenta vestito con abiti civili, come se volesse affermare un’identità nuova. Ma la scena è ambigua: non è chiaro se ciò che vediamo sia reale o solo una proiezione del desiderio del protagonista. La macchina da presa indugia su dettagli quotidiani, quasi a voler suggerire che, per un attimo, anche un uomo come Asher può immaginare un’esistenza normale.
Tematicamente, il finale di Asher rappresenta la tensione irrisolta tra redenzione e condanna. Il protagonista è consapevole che il suo passato non può essere cancellato, ma tenta comunque un atto finale di trasformazione. Il suo ritorno da Sophie non è solo il desiderio di un amore possibile, ma anche la ricerca di un’identità che vada oltre quella del killer. Il fatto che il film scelga di non mostrare apertamente la sua sorte definitiva riflette l’idea che il cambiamento non è mai garantito: può essere tentato, forse sognato, ma raramente raggiunto.
In questo senso, Asher si avvicina a un certo cinema noir esistenziale in cui il protagonista non trova una vera via d’uscita, ma solo un’illusione di salvezza. Il finale è volutamente sospeso, malinconico, segnato da una quiete che non sa se essere pace o resa. Non è tanto la morte o la sopravvivenza di Asher a contare, quanto l’intensità dell’ultimo gesto: un uomo che ha vissuto nell’ombra prova, per un breve momento, a camminare nella luce.