Tommaso Ragno: tra Nostalgia e Siccità, un anno d’oro

Tommaso Ragno

Grazie ai recenti successi di Nostalgia di Mario Martone e Siccità di Paolo Virzì Tommaso Ragno si è definitivamente imposto come uno degli attori più versatili e carismatici del panorama cinematografico italiano. Un traguardo professionale e artistico che lo ha portato a partecipare alla 22a edizione di Open Roads, la rassegna di nuovo cinema italiano organizzata dalla Film Society of Lincoln Center e Cinecittà. Ed è proprio nella prestigiosa cornice situata nell’Upper West Side di New York che abbiamo incontrato l’interprete, il quale ci ha raccontato con precisione il suo personale processo creativo:

 

Quello che risulta evidente vedendo Nostalgia e Siccità è il notevole lavoro che ha fatto sul linguaggio del corpo dei due personaggi Oreste e Alfredo, un processo quasi antitetico. Come lavora alla creazione della fisicità dei suoi ruoli?

Partiamo col dire che Oreste e Alfredo sono accomunati dall’ostentazione del corpo, lo mettono in scena in maniera aperta, quasi sfrontata. Il loro body language è molto sottolineato, se si fosse trattato di film muti avremmo capito comunque molto dalla fisicità di questi ruoli. È un approccio diretto che quasi ritorna alle origini del cinema, quando si doveva esprimere il massimo possibile senza l’aiuto della parola. Le sceneggiature richiedevano ovviamente un approccio differente ai personaggi: Oreste in particolar modo viene spesso evocato dagli altri personaggi, lo spettatore impara a conoscerlo prima di tutto attraverso quello che dicono di lui. Ho iniziato a pensare a quest’uomo come a un fantasma in una casa infestata, una specie di presenza. È stato il modo in cui ho potuto dare qualcosa di mio a questa figura, tratteggiare in maniera personale. Quando Oreste finalmente si palesa al protagonista Felice, è l’ultima apparizione in una galleria di fantasmi del passato.

Tommaso Ragno, l’intervista da Open Roads

Nostalgia regia di Mario Martone
Produzione MAD Entertainment
fotografie di scena Mario Spada

Tommaso Ragno ha una sua metodologia specifica di approccio ai ruoli che interpreta?

Per me il primo passo per entrare in un personaggio è il cliché. È un processo antropologico per avvicinarsi a un’altra lingua, che significa un’altra cultura. Vi sono contenute delle verità che poi devo stare molto attento a non tramutare in macchietta. Non bisogna cercare necessariamente l’originalità, spesso è addirittura meglio lavorare sulle proprie paure per comporre un personaggio. In questo modo puoi trattenerti, non concedere troppo davanti alla macchina da presa, lasciare che sia magari il pubblico a cercare di capire le zone d’ombra del personaggio. Sono fortunato perché ho avuto il tempo necessario per pensare molto al ruolo di Oreste. Il lavoro dell’attore in qualche modo è come quello di un geologo: se hai tempo e pazienza puoi andare in profondità, portare in superficie i vari strati della tua ricerca fino a trovare quello che cerchi. Il mio background teatrale poi è fondamentale per me. Lo stesso nome di Oreste appartiene alla tragedia greca in maniera indelebile. Attraverso il ruolo, d’accordo con Mario Martone, ho esplorato nuovamente temi antichi come il passato che affligge l’essere umano, la colpa o il rimorso.

Passando a parlare di Siccità, come ha lavorato con Paolo Virzì nel trovare l’equilibrio tra il tono della commedia nera presente nel film e i vari temi invece più seri che racconta?

La commedia è un genere complesso, che affronta discorsi spesso tutt’altro che divertenti. Anzi, il miglior modo di realizzarla è proprio quello di tentare di far ridere mettendo in scena il dramma nascosto. Abbiamo girato il film in pieno lockdown, un momento in cui molti colleghi attori erano disposti attraverso i social a offrire intrattenimento con le migliori intenzioni. Io ho preferito fare un passo indietro, tenermi lontano da quel tipo di esposizione, probabilmente per un tipo di pudore che posseggo. Un momento drammatico come ad esempio è stata la pandemia ognuno l’ha affrontata come meglio si è sentito, e con pieno diritto. Io ho preferito non far nulla. Tra parentesi, non trovo i social media “pericolosi”, semmai pericoloso può essere il modo in cui vengono adoperati. Però tutte quelle esperienze ho poi potuto portarle nel ruolo di Alfredo: tutto quello che non ho fatto durante la pandemia l’ho invece lasciato esplodere durante le riprese del film.

L’ultima domanda non può che essere su New York e il cinema americano: cosa prova a presentare un suo film in uno dei luoghi iconici della settima Arte?

La fascinazione parte da lontano, da molto prima di me. Ascoltando le interviste a Sergio Leone o Federico Fellini, tanto per citare alcuni dei nostri grandi autori del passato, si capisce quanto il cinema americano sia stato la loro formazione. Significa moltissimo anche per me, per la mia formazione. Si tratta di un tipo di narrazione ormai archetipica, allo stesso livello del grande romanzo americano. Penso ad esempio a Moby Dick di Melville o a Walt Whitman. Quando ho lavorato nella quarta stagione di Fargo mi sono sentito come un astronauta che atterra sulla luna, come un bambino che realizza il proprio sogno.

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