Addio al linguaggio: recensione del film di Jean-Luc Godard

Addio al linguaggio

Un uomo e una donna alle prese con una controversa vita di coppia e la figura incombente del loro cane. Un ragazzo ed una ragazza affascinati che vivono il loro idillio sulle rive della Senna, mentre un bateau trasporta frotte di turisti. Si parla di politica, filosofia, letteratura e di cinema, un cinema che viene mostrato glorificando sé stesso. Con questa matassa aggrovigliata di schegge narrative Jean-Luc Godard, il grande terrorista del racconto filmico, crea un oggetto talmente particolare che definirlo cinematografico è a dir poco un eufemismo. Adieu au langage (Addio al linguaggio), titolo dichiaratamente programmatico fino al midollo, non può essere definito un film per nessuna ragione.

 

Assomiglia più che altro ad una bomba sonoro-visiva che implode e deflagra innumerevoli volte su sé stessa, eclissando educatamente la linearità logico-narrativa (consuetudine per il vecchio ed unico reduce della Nouvelle Vague), frammentandosi in una moltitudine di accadimenti che hanno come unico collante il piacere di mostrare come si possano buttare a mare ben 120 anni di linguaggio cinematografico, creando un qualcosa che non assomiglia più al normale concetto di audiovisivo. Idealmente organizzato su due capitoli tematici, la Natura e la Metamorfosi, l’ordigno filmico di Godard, contestato premio della giuria a Cannes 2014, ricorre ad uno sperimentalismo estremo nell’uso di differenti qualità di ripresa, dalla classica patina cinematografica (contaminata di digitale) alle visioni pixelate e super-sature delle videocamere compatte e dei cellulari, creando un puzzle estetico impressionante nel suo insieme.

Adieu Au LangageRicorrendo a modalità narrative ormai canoniche (il non-racconto, il conflitto di coppia, la diatriba filosofico-politica) e soluzioni visive che riecheggiando i lavori più nobili dei tempi della sacra contestazione (da La donna è donna a La Cinese), il grande provocatore arriva persino a utilizzare la terza dimensione in un modo talmente originale da far quasi gridare al miracolo. È una stereoscopia narrativa quella che Godard ci mostra, lontana dal sollazzo spettacolare contemporaneo, dove altezza, larghezza e profondità finiscono per diventare parti integranti del racconto, vere forme estetiche.

Lo stesso regista non rinuncia nemmeno a rendere spesso esplicito lo stesso meccanismo di ripresa, mostrandoci innocentemente l’ombra della macchina da presa. Vecchio e nuovo, innovazione e progresso convivono tra loro, come mostra l’esemplare sequenza in cui uno smartphone e un libro vengono sfogliati all’unisono nell’inquadratura, dimostrando l’intento di adattare uno stile leggendario ad una nuova epoca (forse una predica agli addetti ai lavori?). Per alcuni l’ultimo delirio di un ostinato pazzo del cinema che vuole imporre ancora la sua ingombrante presenza, per altri un Fino all’ultimo respiro 2.0, dove ciò che fù la rivoluzione linguistica dell’epoca si ripresenta oggi più potente che mai. Ci si chiede come potrà mai essere fruito un oggetto del genere, un qualcosa che è ormai oltre il cinema stesso.

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RASSEGNA PANORAMICA
Matteo Vergani
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Matteo Vergani
Laureato in Linguaggi dei Media all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, studiato regia a indirizzo horror e fantasy presso l'Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma. Appassionato del cinema di genere e delle forme sperimentali, sviluppa un grande interesse per le pratiche di restauro audiovisivo, per il cinema muto e le correnti surrealiste, oltre che per la storia del cinema, della radio e della televisione.
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