A quasi quarant’anni dal suo debutto con Sesso, bugie e videotape, Steven Soderbergh continua a sorprendere. Con Presence, presentato come un horror ma in realtà più vicino a un dramma familiare sperimentale, il regista dimostra ancora una volta quanto sia instancabile nella sua ricerca formale. Dietro una storia di fantasmi apparentemente semplice, si cela infatti un’operazione cinematografica che riflette sullo sguardo, sull’assenza e sull’enigma della perdita, mettendo lo spettatore nei panni di una vera e propria presenza invisibile all’interno della scena.
L’occhio del fantasma
La trama è quella di molti ghost movie: una famiglia si trasferisce in una nuova casa e inizia a percepire strani fenomeni. Ma sin dalla prima inquadratura, Presence impone un punto di vista radicale. Non siamo esterni agli eventi, né testimoni neutri: siamo dentro la casa fin dal primo fotogramma, prima ancora che i protagonisti arrivino. La macchina da presa è letteralmente il “fantasma” del titolo. Si muove attraverso gli ambienti, spia le stanze, si insinua negli spazi più privati. La soggettiva diventa l’unico sguardo possibile, come se l’intero film fosse narrato da un’entità silenziosa, invisibile e onnipresente.
Soderbergh – che firma anche la fotografia, come di consueto sotto lo pseudonimo Peter Andrews – imposta il racconto attraverso una serie di lunghi piani sequenza, ciascuno costruito con rigore geometrico e movimenti fluidi. Il montaggio è ridotto al minimo, e il senso di continuità è claustrofobico: non possiamo mai davvero distogliere lo sguardo, perché la macchina da presa non ci lascia scampo. È un meccanismo che richiama il voyeurismo di L’occhio che uccide o La finestra sul cortile, ma riletto in chiave contemporanea e minimalista.
Un dramma familiare mascherato da horror
I protagonisti sono Rebekah (Lucy Liu), madre rigida e pragmatica, Chris (Chris Sullivan), padre più empatico e dimesso, e i loro due figli adolescenti: Chloe (Callina Liang), ancora sconvolta per la morte ambigua della sua migliore amica Nadia, e Tyler (Eddy Maday), un ragazzo narcisista e insensibile che cerca il controllo attraverso il disprezzo. La famiglia si sistema man mano in questa nuova casa, ma l’equilibrio è precario fin dal principio. Chloe è la prima ad avvertire una presenza estranea. All’inizio si pensa a un riflesso del trauma, ma le cose iniziano davvero a muoversi. Oggetti spostati, sensazioni inspiegabili, sguardi che sembrano provenire dal nulla.
Il dubbio si insinua: è tutto nella sua testa o c’è davvero qualcuno (o qualcosa) che la osserva? Le dinamiche interne alla famiglia, come è naturale, si complicano. Chris cerca di capire, Rebekah la zittisce, Tyler la prende in giro. In questo contesto, anche la figura di Ryan (West Mulholland), amico del fratello e nuovo interesse romantico di Chloe, aggiunge ulteriore ambiguità. Le relazioni si caricano di tensione, e quando entra in scena una medium per tentare di “leggere” la casa, la posta in gioco si fa più alta. È l’unica, oltre a Chloe, a guardare direttamente in camera, come se potesse davvero vederci. Ma l’effetto è disturbante, perché mette in crisi la nostra posizione di spettatori.
Non un horror da brividi, ma un’opera inquieta e cerebrale
Chi si aspetta jumpscare o colpi di scena alla The Conjuring resterà probabilmente deluso. Presence è un film che lavora per sottrazione: l’orrore non è tanto nella presenza, quanto nell’assenza. L’assenza di comunicazione tra i personaggi, l’assenza di empatia, l’assenza fisica di una persona a noi cara che non c’è più. Il film si muove su una linea sottile tra realtà e percezione, tra lutto e proiezione psichica. E proprio in questo equilibrio risiede la sua forza.
Il paragone con Storia di un fantasma di David Lowery è inevitabile, ma Soderbergh rifiuta la deriva elegiaca e poetica per restare dentro una dimensione più analitica e teorica. Più che commuovere, vuole far pensare. E infatti Presence si interroga sul linguaggio del cinema: chi guarda? Da dove viene lo sguardo? È davvero neutrale? Cosa accade quando lo sguardo diventa un personaggio?
Soderbergh continua a reinventarsi
Presence
Sommario
Presence è un film affascinante, cerebrale e anomalo, che rifugge i cliché dell’horror per costruire un’esperienza immersiva e inquieta. Un’opera “minore” solo in apparenza, che conferma Soderbergh come uno degli autori più vitali del cinema americano contemporaneo.