Dopo il successo internazionale di Talk to Me, i fratelli australiani Danny e Michael Philippou tornano al cinema con un film più intimo e cupo, che conferma la loro volontà di esplorare l’orrore attraverso l’elaborazione del dolore. Con Bring Her Back – Torna da me, i registi abbandonano la dimensione adolescenziale per raccontare una storia di perdita, fragilità e legami spezzati, dove il vero terrore nasce dalla disperazione di chi non riesce a lasciar andare. Un racconto disturbante e tragico, guidato da un’intensa interpretazione di Sally Hawkins, che arriva dal 30 luglio nelle sale italiane con Eagle Pictures.
Una madre spezzata e due fratelli in cerca di un posto nel mondo
Protagonista del film è Laura (Sally Hawkins), una psicologa ed ex assistente sociale che accoglie nella propria casa due fratelli da poco rimasti orfani: Andy (Billy Barratt), adolescente problematico e con un passato di aggressività, e Piper (Sora Wong), una ragazzina ipovedente con una forte dipendenza affettiva dal fratello maggiore. In quella casa vive già Oliver, un bambino muto e introverso con evidenti segni di disagio. Ma soprattutto, vi aleggia il ricordo della figlia di Laura, Cathy, morta in un tragico incidente e mai davvero dimenticata.
L’ambiente, che dovrebbe offrire accoglienza e protezione, si trasforma lentamente in un luogo di tensione e sospetto. Andy intuisce che qualcosa non va: nei comportamenti eccentrici di Laura, nei silenzi che circondano Oliver, nelle piccole dissonanze quotidiane. E mentre cerca di proteggere Piper e guadagnarsi il diritto di starle accanto, scopre che Laura è ossessionata da un rituale oscuro che potrebbe essere la chiave per riportare indietro la figlia perduta.
Il trauma come motore dell’orrore
Bring Her Back si inserisce nel filone dell’horror contemporaneo che utilizza il genere per esplorare tematiche emotive profonde. Se in Talk to Me l’elemento soprannaturale serviva a raccontare la necessità di connettersi con una madre scomparsa, qui la prospettiva si rovescia: è una figura materna a rifiutarsi di accettare la perdita, alimentando il dolore fino a renderlo pericoloso.
Come già il “capitolo” precedente, con cui sembra dialogare contiuamente, il secondo film dei Philippou affronta in modo diretto una delle nevrosi del presente: l’incapacità di comunicare. Nessuno, all’interno di questa storia, riesce davvero a parlarsi. Andy confessa le sue colpe solo in una nota vocale; Piper si muove nel mondo attraverso luci e contorni sfocati; Oliver resta chiuso in un silenzio impenetrabile. E Laura, pur essendo una terapeuta, è la prima a negare la realtà. L’assenza di contatto diventa così un disturbo che si manifesta fisicamente, contaminando ogni rapporto.
Ambienti chiusi per un’angoscia universale
Pur essendo ambientato in Australia, Bring Her Back evita qualsiasi riferimento iconico al territorio. Non ci sono paesaggi aperti, non c’è natura, non c’è respiro. Tutto si svolge in spazi chiusi: la casa, l’ospedale, i corridoi. Un universo claustrofobico in cui ogni tentativo di creare un legame finisce per collassare: l’isolamento, più che geografico, è esistenziale.
I Philippou sfruttano una regia sobria ma precisa, affidandosi più all’atmosfera che agli shock visivi. La tensione è sottile, strisciante, spesso affidata a silenzi e sguardi fuori campo. Per questo, i momenti più disturbanti non sono quelli in cui l’orrore si manifesta apertamente, ma quelli in cui emerge l’impossibilità di trovare conforto, vicinanza, empatia.
Sally Hawkins al centro di un dolore che diventa pericolo
La vera forza del film risiede nella performance di Sally Hawkins, inedita nel ruolo di una donna capace di rassicurare e inquietare allo stesso tempo. Il suo personaggio non è scritto come una villain, ma come una madre che si è persa nel proprio dolore: è proprio questa umanità ferita, trattenuta e spesso distorta, a renderla tanto efficace. Laura non è mossa dalla malvagità, ma dall’ossessione, e Hawkins riesce a rendere credibile questa deriva psicologica con un’intensità rara. Anche il cast giovanile attorno a lei funziona: Sora Wong colpisce per la naturalezza e la delicatezza con cui incarna Piper, mentre Billy Barratt restituisce con efficacia il disagio e la fragilità di Andy, ragazzo ancora troppo giovane per sostenere il peso di un ruolo da adulto.
Un horror più emotivo che spettacolare
Chi si aspetta un horror ricco di colpi di scena o di effetti visivi potrebbe restare sorpreso. Bring Her Back sceglie una strada diversa: lavora sull’inquietudine, sulla malinconia, sull’empatia. I momenti di tensione pura sono pochi, ma ben gestiti, e quando il film decide di affondare il colpo, lo fa con precisione chirurgica. Non mancano alcune forzature narrative, soprattutto nella seconda parte, e il ritmo potrebbe risultare lento per chi cerca un’esperienza più adrenalinica. Tuttavia, trova la sua forza nella coerenza tonale e nella capacità di restare ancorato al dolore reale da cui nasce. Non a caso, i Philippou hanno dichiarato di aver concepito lo script dopo due lutti personali, e il risultato ne riflette tutta l’autenticità.
Bring Her Back conferma il talento e la maturità del duo di registi australiani, capaci di reinventarsi senza tradire le radici del loro cinema. Se Talk to Me era un horror folgorante sull’adolescenza e l’identità, qui ci troviamo davanti a un’opera più adulta, che affronta con lucidità e coraggio il lato più oscuro della genitorialità e della perdita. Meno spettacolare, ma più doloroso. E forse, proprio per questo, ancora più efficace.
Bring Her Back
Sommario
Bring Her Back conferma il talento e la maturità dei fratelli Philippou, capaci di reinventarsi senza tradire le radici del loro cinema. Se Talk to Me era un horror folgorante sull’adolescenza e l’identità, qui ci troviamo davanti a un’opera più adulta, che affronta con lucidità e coraggio il lato più oscuro della genitorialità e della perdita. Meno spettacolare, ma più doloroso. E forse, proprio per questo, ancora più efficace.