Budrus: recensione del film di Vittorio Arrigoni

Budrus

La prima assoluta del pluripremiato documentario Budrus in Italia al cinema Farnese si apre con un videoclip musicale. Il Darg Team, una crew di rapper palestinesi molto apprezzati in rete, canta in arabo un brano libanese (completamente riarrangiato da loro) dal titolo “Unadikum”. Nel testo c’è tutto l’orgoglio di un popolo in perenne conflitto per la striscia di Gaza, ma nel contempo c’è voglia di vivere, di comunicare e poi molto spesso ricorre un nome fra le rime: Vittorio. La dedica speciale di questi ragazzi (tutti dai 24 ai 30 anni) va ad un “fratello palestinese” ingiustamente assassinato: Vittorio Arrigoni. Al suo operato e a quello di Freedom Flotilla verrà dedicato un lungo applauso a fine proiezione.

 

In Budrus Siamo nel 2003 e il Governo israeliano di Ariel Sharon, per far fronte al crescente numero di attacchi terroristici dalla Palestina, decide di erigere un muro di sicurezza per impedire ai kamikaze palestinesi di entrare in Israele. Il progetto dovrebbe svilupparsi sui confini stabiliti dai trattati ma invece sconfina nel territorio palestinese. Un abuso di potere in piena regola, quindi. Israele non solo vuole isolare fisicamente la Palestina dall’area della West Bank rifugiandosi dietro un muro, ma intende addirittura appropriarsi di molte sue terre in maniera del tutto arbitraria. Alcune di queste terre appartengono a Budrus. Budrus è un piccolo villaggio cisgiordano di 1500 anime che, nel 2004, vede sopraggiungere nei propri campi d’ulivo l’esercito di Israele con tanto di ruspe.

Invece di lasciarsi sottomettere oppure di rispondere con violenza alla violenza, il paesino, guidato dal suo leader/ padre di famiglia Ayed Morrar, sceglie di mobilitarsi in una grande marcia pacifica per far desistere gli invasori, che nel frattempo hanno estirpato tutti gli ulivi dai campi di Budrus. Inizia così la storia di un villaggio che diventerà, di lì a qualche mese, un simbolo per tutti gli altri piccoli centri palestinesi ingiustamente invasi. “La violenza”, urla Morrar alla gente, “è proprio quello che Israele si aspetta da noi! L’esercito usa la paura e la Non-Violenza toglie la paura”.

Budrus, il film

Ecco perché la resistenza non-violenta si rivelerà difficoltosa ma vincente, tanto da spingere le autorità a ridefinire i confini del muro. Ma il vero miracolo di questa protesta non violenta è che riesce ad accomunare tutti e ad andare oltre le faide interne (si ritrovano fianco a fianco palestinesi di Hamas e di Al Fatah), volontari provenienti da tutte le parti del mondo ed addirittura israeliani disposti a schierarsi dalla parte dei palestinesi. Una sommossa popolare che va oltre i “colori” politici e geografici e che sceglie la via della non violenza nel nome dei diritti umani primari e della loro salvaguardia.

La giovane regista brasiliana Julia Bacha fotografa con grande sagacia tecnica e artistica la quotidianità di Budrus, facendola sentire molto vicina allo spettatore, attraverso le parole dei diretti interessati e lo sguardo di uomini, ragazzi, bambini ma soprattutto di donne immerse nella loro normalità violata. Sì, perché sono le donne, inizialmente tagliate fuori dalla protesta, le vere protagoniste di quest’impresa e di questo documentario. Armate solo della loro grazia e di un coraggio indomito, le donne di Budrus difendono i loro campi, si gettano nelle fosse scavate dalle ruspe, reclamano invano i loro ulivi- simboli di prosperità e vita, oltre che fonti primarie di sostentamento. Le donne non temono né i manganelli né le minacce dell’esercito israeliano.

Il risultato con Budrus è un documentario ben scritto, molto ben montato e ottimamente girato. Come già fatto nel precedente “Encounter Point” (diretto insieme a Ronit Avni), anche qui Julia Bacha e la troupe di JustVision (organizzazione no profit) segue e riprende per mesi interi la vita di un villaggio sotto assedio costante e accumula una gran quantità di materiale, passato poi sotto le sapienti mani della post-produzione e del montaggio. Molto di questo materiale è assolutamente inedito e mostra con grande chiarezza l’atteggiamento razzista dei militari d’Israele, pronti ad alzare le mani sui palestinesi, ma non sugli “israeliani ribelli”.  Un’altra opera incredibilmente veritiera che ci porta in una parte di mondo che è sempre più sotto l’occhio della settima arte. Immagini inedite e talvolta scomode a sostegno di un documentario che sceglie la via del racconto, non quello del sensazionalismo e risulta attraente e forte proprio in ragione di questa scelta.

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