Alcuni dei personaggi che popolano
l’universo Shakespeariano sono destinati ad accompagnarci per
sempre: conosciamo bene lo stupore sul volto di Amleto alla vista
dello spirito del Padre e lo sguardo sognante di Giulietta mentre
invoca sul balcone il nome di Romeo, ma altri protagonisti non sono
riusciti a trovare la loro strada nella memoria collettiva complice
un non elevato numero di rappresentazioni e un tono meno vibrante e
politicamente orientato.
Un esempio è Coriolanus, che pur
favorito da interpreti illustri non ha mai goduto della stessa
popolarità di Giulio Cesare o Enrico V: la missione di restituire
al pubblico la sua storia leggendaria(al cinema l’8 aprile grazie
al progetto del National Theatre Live) è recentemente ricaduta
su Josie Rourke, che nel limitato spazio del Donmar
Warehouse ha trovato in un ottimo cast la chiave per raggiungere la
giusta intensità emotiva.
Coraggioso generale tradito dalla sua stessa superbia e da una democrazia acerba che si guadagna a pieno diritto il titolo di migliore e allo stesso tempo peggiore fra le forme di governo, Coriolanus è il simbolo di un equilibrio precario che degenera nel caos quando l’egoismo del singolo sceglie di soddisfarsi a discapito del bene della collettività: una lente di pressante e nocivo malcontento che vigila sui nostri governi e che rende ben visibile il binomio dell’opera con l’attualità, sottolineato dalla scelta della produzione di optare per costumi dal sapore ibrido dando vita a un mondo senza tempo; pur con una scenografia pressoché assente la costruzione della tensione è gestita in maniera egregia durante gli scontri col nemico, forti del semplice ma efficace artificio di usare sedie al posto degli scudi, così come nei rabbiosi confronti coi Tribuni della plebe, il potere nuovo che respinge chi non riesce a moderare un’intemperanza benvenuta sul campo di battaglia ma intollerabile nelle parole rivolte a un’assemblea.
Segnato dalle cicatrici che porta come
stimmate della tua devozione alla causa di Roma, confuso dagli
onori che la Patria insiste nel volergli attribuire e in fine
distrutto dal vedersi strappare via il nome che aveva consacrato la
gloria e l’onore che credeva di rappresentare Tom
Hiddleston è un eccellente Coriolanus, in grado di
trasmettere la furia di un guerriero incostante così come la
sofferenza di un figlio distrutto dall’ambizione della
madre(commovente Deborah Finlay) e consapevole di dover
morire per fare ammenda dei suoi errori; perfetto
anche Mark Gatiss, che nei panni del diplomatico
Menenius ritrova alcuni tratti del suo Mycroft
in Sherlock, e Birgitte Hjort
Sørensen nel ruolo di Virgilia, paziente e innamorata
moglie del Generale.
Chi è riuscito nella titanica impresa di accaparrarsi i biglietti lo scorso inverno può davvero ritenersi fortunato: Coriolanus è un grande spettacolo che non si regge sull’eleganza dei suoi versi o sulla ricchezza dell’allestimento ma sulle prove degli attori chiamati a coglierne la disperazione feroce e spaventosamente contemporanea; il lavoro svolto da Hiddleston, pronto finalmente a scrollarsi di dosso il ricordo di Loki e a ritrovare nel palcoscenico il suo elemento, ha una finezza che non si dimentica.