Quella di Patrick Dickinson è una vicenda personale comune a tante altre, dove si attraversano l’amore materno, la durezza paterna e la necessità di emanciparsi dal nucleo famigliare. È però anche, ed è questo a caratterizzarla, una vicenda che unisce culture diverse ma legate da insospettabili somiglianze. Tutto ciò, rivisto attraverso l’occhio del cinema ha portato all’ideazione e alla nascita di Cottontail, primo lungometraggio – presentato alla Festa del Cinema di Roma – del regista inglese formatosi in Giappone. Proprio in tale paese ha dunque inizio questo racconto parzialmente autobiografico che fa della riflessione sulle dinamiche famigliari il proprio cuore pulsante.
La trama di Cottontail: viaggio di riscoperta
Protagonista di questo racconto è Kenzaburo (Lily Franky), rimasto vedovo dell’amata Akiko, portata via da una malattia tanto rapida quanto feroce. Il suo processo di elaborazione del lutto viene però sconvolto dalla scoperta di una lettera scritta da sua moglie prima di andarsene per sempre. In questa, la donna amata gli chiede di esaudire un suo ultimo desiderio, ovvero quello che le sue ceneri vengano sparse nel lago Windermere, in Inghilterra, luogo preferito della sua infanzia. Per Kenzaburo ha dunque inizio un lungo viaggio, nel corso del quale sarà accompagnato da suo figlio Toshi, con il quale ha però sempre avuto un rapporto piuttosto complesso.
Alla scoperta dell’animo umano
Cresciuto da un padre restìo a spogliarsi della corazza per mostare la propria fragilità di uomo, Dickinson – per motivi di studio – ha viaggiato sino all’altra parte del mondo, in Giappone, solo per ritrovarsi accolto in un casa con una nuova figura paterna a sua volta contraria a mostrare il proprio mondo emotivo. Due culture profondamente diverse eppure con un simile modo di rapportarsi con le emozioni, l’interiorità e, di conseguenza, con quanti intorno a sé. Parte dunque da qui Cottontail, dal desiderio di scoprire in che modo poter abbattere questo muro, nello specifico quello che si erge tra padri e figli.
Il regista punta dunque a scavare quanto più a fondo possibile nell’animo dei suoi protagonisti e per farlo adotta il formato 2.39:1, che permette di ottenere immagini con un campo visivo particolarmente ampio, applicandolo però in modo inusuale non a dei panorami bensì ai primi piani degli attori. I loro volti riempiono così le inquadrature e la sensazione è quella di una vicinanza estrema, grazie alla quale poter catturare ogni loro più piccola espressione ed emozione. In generale, Dickinson presta molta attenzione a restituire il senso del proprio racconto attraverso le immagini, più che le parole.
Tra Kenzaburo e Toshi vige infatti un rapporto caratterizzato da silenzi, dal non occupare quasi mai la stessa inquadratura. I due personaggi vengono dunque rappresentati isolati anche quando occupano lo stesso spazio fisico. Il regista, già alla sua prima opera, dimostra dunque forti idee di composizione e messa in scena, ma anche di saper evitare che esse diventino superflui virtuosismi, il cui effetto più probabile era quello di appesantire inutilmente una storia che deve vivere invece di delicatezze. Perché scegliendo di raccontare il lutto e i rapporti famigliari attraverso una famiglia giapponese, Dickinson sa di dover disporre tutto secondo il modo in cui tale cultura vive questi temi.
La sceneggiatura limita l’emozione
Sapendolo, il regista si rifà allora ai grandi del cinema giapponese che prima di lui hanno affrontato tali questioni, spogliandole giustamente di ogni possibile orpello per cercare di catturarle al meglio nella loro essenzialità. Le intenzioni del suo Cottontail sono dunque quantomai chiare e precise, ciò che tuttavia inficia sulla completa riuscita del film è una scrittura che non si rivela all’altezza del racconto. Dickinson, anche unico sceneggiatore del film, sembra correre troppo verso determinati obiettivi, sacrificando invece parti del viaggio durante i quali avrebbe potuto emergere con più forza il rapporto tra i due protagonisti, come anche molte delle motivazioni che li guidano nel loro agire.
Alla loro ricerca del lago Windermere si alternano poi flashback di Kenzaburo e Akiko dal loro primo incontro fino alla scomparsa di lei, ma anche in questo caso ci si trova il più delle volte dinanzi a frammenti di passato che sembrano gettare nel racconto più di quanto occorre. È allora qui che il regista sembra non essere stato attento a portare avanti quell’economia che il racconto invece richiedeva, né a scegliere attentamente cosa raccontare o meno. Lo spettatore rischia pertanto di sentirsi gettato in mezzo a situazioni che non permettono di costruire e portare avanti un’unica forte emozione e limitano il coinvolgimento nei confronti di quanto padre e figlio stanno vivendo.
Quando poi è il momento di offrire allo spettatore uno sconvolgente colpo di scena, da cui si arriva alla conclusione del film, ci si accorge di trovarsi di fronte ad un bel finale ma di essere scarichi di quell’emozione che avrebbe invece potuto renderlo memorabile. Ad ogni modo, pur non essendo un esordio brillante come si sperava, Dickinson riesce a mettere in campo diversi elementi che lo rendono un regista da tenere d’occhio, che limando le ingenuità che ora – comprensibilmente – ancora lo limitano, potrebbe dar vita in futuro a racconti ricchi di un’umanità che sembra essergli propria.