Nel 1931 il celebre regista sovietico Sergej Eisenstein, all’apice della sua carriera, si trova in Messico per girare un nuovo film. Lontanissimo dalla rigida dottrina della madrepatria stalinista e in un ambiente eccentrico in cui tutte le inibizioni paiono dissolte, grazie all’auto dell’intrigante guida locale Palomino Canedo il visionario regista passerà gli ultimi dieci giorni della sua permanenza all’insegna di inaspettate scoperte riguardanti il nuovo paese ma anche la propria vita personale e sessuale.
Pochi registi come Peter
Greenaway hanno potuto conservare intatto nel tempo
l’epiteto di maestro, e anche in questo caso il visionario autore
dipinge un affresco visivo e personale di straordinaria potenza e
bellezza, una storia che parte dalle intenzioni di un documentario
biografico e sfocia in una vera e propria lezione di tecnica e di
sentimento dipinto su celluloide. Dopo gli ultimi due grandi omaggi
formali a grandi autori dell’arte illustrata, Greenaway questa
volta decide di puntare direttamente al cuore del cinema stesso, e
con Eisenstein in Messico riesce
finalmente a tramutare in materia brulicante l’omaggio tanto
sognato su quello che lui stesso ha definito come il suo grande
padre spirituale, a cominciare innanzitutto dalla forte
vena sperimentale che lega a filo doppio i due autori. La mimesi
Greenaway/Eisenstein è qui più che mai declamata, in primo luogo
per i numerosi interventi visivi con cui il film incalza,
alternando sapientemente registri differenti, ogni momento
saliente, in un affettuoso omaggio che riutilizza non solo
soluzioni del cinema sovietico ma soprattutto veri estratti della
filmografia esenstaniana.
Per la prima volta
Greenaway sembra essere finalmente riuscito a calibrare con
sapienza una narrazione decisamente più lineare e solida rispetto
ai suoi estremi esperimenti di videoarte con un gusto estetico che,
seppur eclettico come di consueto nella sua poetica, stavolta
appare non come elemento fine a sé stesso ma come forte e coerente
sostegno ad una storia che mette al centro per prima cosa una
fanta-biografia in cui il regista sovietico, interpretato da un
espressivo e spumeggiante Elmer Back, viene
descritto non come il consueto genio creativo ma come un insicuro
bambinone curioso e inesperto, il quale comprende i segreti della
sua intima natura grazie ad un guida-amante che funge da mentore e
da meccanismo di sblocco.
Greenaway sa ben dosare i vari componenti, impedendo questa volta che la forma prevalga sul contenuto, delineando un cammino simbolico in cui si parte dall’eros e si arriva alla scoperta e al pensiero della morte (thanatos), tema onnipresente e gravante su tutta la pellicola. Eisenstein ha saputo cambiare il linguaggio del cinema, ma nessuno come Greenaway ha saputo descrivere, tra finzione e realtà, come l’esperienza messicana ha cambiato radicalmente la sua vita.