Andrew Renzi, giovane filmaker di Philadelphia, a soli 31 anni è pronto a compiere il grande salto verso Hollywood e le produzioni low- budget disseminate di star con il film Franny, pellicola difficile da decifrare ed etichettare che vede come protagonisti Richard Gere, Dakota Fanning e Theo James.
Tre generazioni diverse di attori, con percorsi diversi alle spalle, ma che vengono orchestrati dal regista con grazia e tatto per raccontare la storia di Franny (appunto) un miliardario filantropo pronto a portare gioia a tutti coloro che lo circondano, forse semplicemente per rimediare ai sensi di colpa che lo divorano da quando la coppia di amici fraterni, Mia e Bobby – genitori di Olivia – sono morti in un incidente nella stessa auto dove viaggiava anche lui. Ma la sua precaria “fortezza della solitudine” viene messa a repentaglio con il ritorno inaspettato di Olivia, giovanissima ma già sposa e in procinto di diventare madre, che chiede all’eccentrico miliardario un favore: trovare un lavoro per il marito Luke, medico. Da quel momento per Franny si prospetteranno due scelte di vita, in biblico tra redenzione e lenta discesa nel turbinio delle sue follie e dei suoi mostri del passato.
Franny è
sfaccettata e ricca di spunti narrativi, e proprio per questo va
incontro – a braccia aperte – al tremendo rischio di raccontare,
diegeticamente, “tutto e niente”: troppi spunti interessanti di
riflessione vengono solo abbozzati, facendola ricadere dell’oblio
delle opere prime ambiziose ma caotiche. A salvarla in
corner, però, ci sono le ottime interpretazioni maschili,
soprattutto di
Gere – mattatore assoluto, tocco barocco trasudante
metodo Strasberg – ma anche il “novizio” James, carattere e
lineamenti decisi, che riesce a duettare con il veterano leone
senza soccombere durante le scene più intense.
È la forza attoriale a conferire al film quella complessità, salvandolo dalle semplici macchiette, portate in scena come marionette; la sceneggiatura di Renzi, personale e complessa, riesce a mantenere un buon ritmo costante dividendosi abilmente tra alti e bassi, climax e anti – climax, sovvertendo le percezioni dello spettatore proprio quando si trova ad accettare – rassegnato – ciò che vede sullo schermo, creando il curioso effetto di un giro sull’ottovolante della vita.
Il focus intorno al quale ruota tutta la vicenda di Franny e dal quale, alla fine, derivano anche le azioni che cambiano il corso degli eventi è l’enigmatico Franny: miliardario dal misterioso passato, dal carattere inquieto, afflitto da dipendenze fisiche, psichiche ed emotive, morfinomane e invadente fino ai limiti dell’ossessione, il risultato del lavoro in tandem tra Gere e Renzi è un curioso mix tra Hemingway e Howard Hughes, una sorta di leggenda “umana, troppo umana” succube della propria grandezza e del proprio potere, minato nella propria fragilità dal peso del passato e dai sensi di colpa zavorranti che rendono l’arte del vivere una sfida verso sé stessi.