Anemone: recensione del film dei Day-Lewis, il ritorno del padre e la nascita del figlio – Alice nella Città

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Presentato in anteprima italiana nella sezione Alice nella Città 2025, in occasione della Festa del Cinema di Roma, dove lo abbiamo visto, Anemone segna un doppio evento cinematografico di rara intensità: il ritorno alla recitazione di Daniel Day-Lewis, dopo otto anni da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, e l’esordio alla regia del figlio Ronan, che firma anche la sceneggiatura insieme al padre. L’incontro tra le due generazioni Day-Lewis si traduce in un’opera solenne, un film che vive di silenzi, sguardi e lente rivelazioni, e che fa della memoria e del perdono i suoi cardini più profondi.

Un ritorno che non è solo professionale, ma quasi spirituale, perché in Anemone Daniel non interpreta semplicemente un personaggio, ma un riflesso di sé stesso, un uomo che — come lui — riemerge dal silenzio per affrontare il tempo e la memoria.

Il ritorno del padre

Ambientato nel nord dell’Inghilterra, tra foreste cupe e brughiere battute dal vento, Anemone racconta la storia di Ray (Daniel Day-Lewis), un uomo che ha scelto di isolarsi dopo un trauma familiare, e di Jem (Sean Bean), il fratello che decide di ritrovarlo dopo decenni di lontananza. Il film prende forma dal loro incontro, da un ritorno che è al tempo stesso fisico, emotivo e simbolico: Jem cerca Ray, ma Ray deve prima ritrovare sé stesso per poterlo salvare.

Ronan Day-Lewis costruisce così una doppia storia: quella di un figlio che dirige il padre nella finzione, e quella di un padre che, nella finzione, torna alla vita per salvare il figlio. È un gioco di specchi tenero e vertiginoso, in cui la realtà familiare si riflette nella finzione cinematografica fino a confondersi.

Già dalle prime inquadrature, Ronan dimostra una sorprendente maturità visiva. Il suo cinema procede come una marea: lento, costante, solenne, capace di sommergere lo spettatore senza mai travolgerlo. Ogni immagine è misurata, ogni respiro pesa. È un film che cresce dentro, che continua a espandersi anche dopo la visione, come un’eco silenziosa che resta nel petto.

Un film di silenzi e confessioni: la regia del dolore e della rinascita

In Anemone, la regia di Ronan Day-Lewis si impone per la sua eleganza trattenuta e per la capacità di trasformare il dolore in linguaggio visivo. Ogni inquadratura è un quadro in movimento, illuminato da una luce lattiginosa e incerta, come se tutto fosse immerso in una perenne aurora. La foresta diventa un luogo dell’anima, un labirinto di rami e nebbia dove il passato ritorna sotto forma di presenze invisibili. È lì che i due fratelli si cercano, si perdono, si confessano.

Il ritmo è solenne e inesorabile, scandito da silenzi più eloquenti di qualsiasi parola. La tensione non nasce dal conflitto esterno, ma da quello interno: la difficoltà di guardare in faccia chi ci somiglia troppo. In questa lentezza controllata, Ronan trova la sua voce: un tono dolce e crudele insieme, che non concede distrazioni.

Daniel Day-Lewis, tornato davanti alla macchina da presa dopo anni di ritiro, offre un’interpretazione che va oltre il mestiere. Il suo Ray è un uomo spezzato, che ha smesso di credere nella possibilità del perdono. Ma è anche un padre, e sarà proprio l’amore — o il ricordo di esso — a costringerlo a riemergere dal suo esilio. In questa parabola c’è qualcosa di profondamente meta-cinematografico: come Ray torna alla vita per il figlio, così Daniel torna al cinema per suo figlio Ronan, mettendo in scena, con la grazia che lo contraddistingue, la potenza del legame che li unisce.
L’attore si muove tra dolore e dignità, trasformando ogni sguardo in una confessione. È una performance scarnificata, quasi mistica, che parla del tempo, della memoria e dell’impossibilità di tornare davvero indietro.

Accanto a lui, Sean Bean restituisce a Jem una vulnerabilità nuova, una dolcezza inaspettata. Il suo personaggio rappresenta il mondo che preme ai confini della foresta, la vita che continua anche quando ci si rifiuta di parteciparvi. Samantha Morton, in un ruolo laterale ma determinante, incarna la voce del passato, la memoria di un affetto mai guarito.

A legare tutto c’è un sound design magistrale, fatto di assenze e di echi. In Anemone il suono non accompagna l’immagine, ma la costruisce. Non c’è musica tradizionale, ma un paesaggio sonoro composto da fruscii, respiri e vento. È come se la natura stessa partecipasse al dolore dei personaggi, rendendo l’esperienza cinematografica profondamente immersiva e sensoriale.

Daniel Day-Lewis e Sean Bean in Anemone
Daniel Day-Lewis e Sean Bean in Anemone. Cortesia di Focus Features

Memoria, identità e eredità: un film che parla di vita e di cinema

Anemone è molto più di un dramma familiare. È un film che interroga il tempo, la memoria e il senso stesso del racconto. Ronan Day-Lewis utilizza la storia dei due fratelli per parlare del rapporto tra generazioni, tra chi ha già detto tutto e chi deve ancora trovare la propria voce. È un film sul ritorno, ma anche sulla trasmissione: ciò che un padre lascia a un figlio, non come eredità materiale, ma come gesto d’amore e di arte.

C’è qualcosa di straordinariamente commovente nel vedere Daniel Day-Lewis diretto da suo figlio. Lì, davanti alla macchina da presa, non c’è solo un attore che torna a recitare, ma un padre che offre il proprio volto e la propria voce per raccontare la nascita di un nuovo sguardo. Ronan, dal canto suo, restituisce tutto con una delicatezza che sorprende. Non sfrutta il mito del padre: lo accoglie, lo abbraccia, e attraverso di lui trova il proprio linguaggio.

La metafora dell’anemone, il fiore che si chiude al minimo contatto, attraversa il film in ogni suo gesto. Ray è come quel fiore: fragile, ferito, incapace di aprirsi se non nel momento della resa. E in quella fragilità, in quel piccolo movimento verso la luce, c’è tutto il senso del film. Nel finale, non ci sono abbracci o parole risolutrici. C’è solo un gesto — minimo, concreto, umano — che racchiude la possibilità del perdono. È lì che Anemone trova la sua verità più profonda: la vita può tornare, anche dopo il silenzio più lungo.

Con Anemone, Ronan Day-Lewis firma un esordio maturo e potente, che unisce il respiro classico del grande cinema britannico alla sensibilità contemporanea. È un film che parla di padri e figli, ma anche di cinema e rinascita, di memoria e identità. Un film che cresce lentamente dentro chi lo guarda, come un fiore ostinato che continua a fiorire anche dopo la tempesta. Un debutto che non è solo una promessa, ma un atto d’amore.

3.5

Sommario

Un debutto che non è solo una promessa, ma un atto d’amore.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice e Direttore Responsabile di Cinefilos.it dal 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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