I fratelli De Filippo, la recensione del film di Sergio Rubini

Il film di Sergio Rubini rende onore e omaggio al leggendario trio napoletano

I fratelli De Filippo

Eduardo, Peppino e Titina: da sempre e per sempre I Fratelli De Filippo. Loro i protagonisti assoluti del film di Sergio Rubini presentato alla Festa del Cinema di Roma e nei cinema il 13, 14 e 15 dicembre per una uscita speciale che anticipa il passaggio su Rai1 del 29 dicembre. Un diverso Natale in Casa Cupiello, insomma, ci aspetta. E per una volta l’occasione di conoscere meglio figure entrate nel mito, che siamo spesso abituati a fotografare semplicisticamente.

 

Questa l’operazione del regista pugliese, che dopo venti anni e 14 film diretti si mette dietro la macchina da presa per raccontare il teatro, una passione comune a quella dei tre fratelli, animati dal sacro fuoco ed eredi putativi del grande Eduardo Scarpetta (interpretato da Giancarlo Giannini).

La storia de I Fratelli De Filippo

Cresciuti a Napoli all’inizio del Novecento, Eduardo, Peppino e Titina non sono mai stati riconosciuti come figli dallo ‘zio’, che però sin da bambini li porta con sé dietro le quinte e sul palcoscenico. Alla morte dell’attore, ai tre non spetta nulla della sua eredità, ma il riscatto passa per la formazione del trio De Filippo, sogno accarezzato per anni dai tre fratelli.

Che sullo schermo hanno i volti di Mario Autore, Domenico Pinelli e Anna Ferraioli Ravel (rispettivamente Eduardo, Peppino e Titina), circondati da Giovanni Esposito, Nicola Di Pinto, Augusto Zucchi, Lucianna De Falco, Marianna Fontana e Maurizio Casagrande, oltre a  Maurisa Laurito, Maurizio Micheli e Vincenzo Salemme. Un cast ricco, ampio, variegato, forse troppo, che sicuramente aiuta i tre protagonisti a emergere in un affresco composto da figure di contorno, nel quale sono i conflitti tra il Vincenzo Scarpetta di Biagio Izzo e il fratellastro Eduardo, e di quest’ultimo con Peppino, a spingere avanti la narrazione e a catturare.

Il contesto rischia di diventare il vero protagonista

Nonostante i nomi impegnati nella scrittura, i dialoghi non sono certamente la forza di una produzione nata per la serialità tv, e che di quel mondo sconta qualche difetto. Al netto di una grande cura e attenzione a scenografie, location, costumi e ricostruzioni di un contesto che rischia di diventare il vero protagonista. Più ancora del trio patrimonio nazionale o di una regia che – forse per cronachistico rispetto – non riesce a trasmettere il cuore messo nel presentare e realizzare il progetto.

Una storia “italiana” e “di una ferita familiare” l’ha definita lo stesso Rubini, che già sogna un sequel, con il quale arrivare fino al 1944, quando definitivamente le strade dei De Filippo si divisero. Che forse farebbe bene a destinare definitivamente al piccolo schermo, senza confusioni, ma che difficilmente potrebbe aggiungere molto – cinematograficamente parlando – al conflitto ampiamente esplorato in questa sede, per altro senza poter contare sulla parabola del tanto bistrattato Peppino, dei tre il più sfaccettato e imprevedibile, nel bene e nel male.

I personaggi sono appiattiti

L’eccessiva caratterizzazione dei personaggi, tutti troppo netti, coerentemente con la natura teatrale del loro habitat e della vicenda, appiattisce un po’ alcuni passaggi. E il bilancio finale è sicuramente indebolito da alcune immagini che verrebbe da definire datate o poco credibili (come la versione anziana della Signora De Filippo o certe esagerazioni dell’encomiabile Giannini e della Laurito). E se per lo sbarco in una Milano nebbiosa e dove nessuno “sta mai coi man in man” c’è la scusa della citazione, per la dedica al Vesuvio siamo più dalle parti di Un posto al sole…

Non serviva insistere sullo stereotipo, in una pièce nella quale Napoli spunta dietro ogni angolo, in ogni scena, dalla riproposizione della poesia Napule all’elegia della sua gente, nata per recitare e costantemente in scena. Ma d’altronde non si potevano eliminare sentimentalismi e napoletanità, anche nelle sue manifestazioni più popolari, da un omaggio del genere, che nella sua circolarità si chiude con un finale conciliatorio. Che sarà bene non scomodare ulteriormente.

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