La strage di San Gennaro: la recensione del docufilm prodotto da SkyCrime

La produzione in esclusiva su Sky Crime il 30 gennaio alle 21.05

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Asseriva Peppino Impastato, ne I Cento Passi di Marco Tullio Giordana, che “se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità […] e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre”. A risvegliare questa memoria ci hanno provato gli autori del docufilm La Strage di San Gennaro, una produzione di SkyCrime diretta da Matteo Lena. Al centro della storia, l’omicidio di sei immigrati africani a Castel Volturno, in provincia di Caserta, il 18 settembre 2008. Una strage senza un movente diretto verso gli uomini che rimangono a terra, raggiunti da un volume di fuoco di centinaia di bossoli sparati da kalashnikov e pistole al servizio di un boss della camorra in cerca di una rapida ascesa al potere. Questo è l’orrore, senza dubbio, ma come ci siamo arrivati?

 

Alle origini della strage di San Gennaro

La sceneggiatura di Carlo Altinier e Stefania Colletta racconta la strage di San Gennaro partendo dagli anni Settanta, quando il degrado dell’odierna Castel Volturno era un’ipotesi impossibile da formulare per i suoi ricchi frequentatori. La cartolina di un mare cristallino, con una pineta tra le più estese d’Italia, villette curate e un turismo d’élite a meno di un’ora da Napoli, rappresenta uno sbiadito ricordo a cui, nel tempo, si sono sovrapposti proprio gli orrendi palazzi predetti da Impastato. Otto, per la precisione, costruiti sulla spiaggia ad opera dei fratelli Cristoforo e Vincenzo Coppola, originari di Casal di Principe, che sognavano di impiantare qui una Rimini campana nella completa ignoranza di qualsivoglia vincolo paesaggistico.

Le torri di Pinetamare, come era conosciuto il villaggio, vennero abbattute tra il 2001 e il 2003, con una serie di interventi registrati dal film documentario L’esplosione di Giovanni Piperno. Restituire quel tratto di terra al mare non è stato sufficiente a ripristinare l’antica bellezza: l’abuso edilizio, nel suo degradare l’ambiente, aveva nel frattempo aperto la strada alla cultura dell’illegalità, come se il ‘brutto’, come viene testimoniato in questo docufilm, avesse cominciato a permeare la mentalità stessa degli abitanti. Scomparsi i turisti benestanti, anche i privati hanno progressivamente abbandonano i propri immobili e in una generalizzata mancanza di cura, il territorio di Castel Volturno ha finito per diventare un luogo fatiscente, preda facile di qualsiasi forma di criminalità.

La ricostruzione dei fatti di cronaca di Castel Volturno

Lo dichiara Cesare Sirignano, pubblico ministero nel processo contro Giuseppe Setola, il mandante della strage di San Gennaro e lui stesso a capo del gruppo di fuoco che nel 2008, nella frazione di Ischitella, a Castel Volturno, si scagliò contro la sartoria del ghanese El Hadji Ababa. Quella sera, per caso fortuito, nel locale si trovavano anche i connazionali Joseph Ayimbora, Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams, oltre a Samuel Kwako, originario del Togo, e a Jeemes Alex, originario della Liberia. Ayimbora, l’unico sopravvissuto, riuscì a salvarsi perché il suo corpo insanguinato fu protetto da quello di un compagno colpito più duramente e caduto a morte.

Il documentario parla di loro, delle vittime degli spari, perché Setola è solo uno dei tanti pervasi dal ‘brutto’ e indagare la sua storia non sarebbe sufficiente per rispondere alla domanda: “per quale motivo?”. Alle ore 19.55 di quella sera di fine estate, Setola, ancora in umore di sangue dopo aver sparato ad Antonio Celiento, un pregiudicato ritenuto informatore delle Forze dell’Ordine, chiede ai suoi scagnozzi di trovare dei neri. Il suo messaggio deve arrivare forte e chiaro alla cosiddetta mafia nigeriana, che da anni sfrutta la prostituzione per reinvestire i proventi nel traffico di stupefacenti sul ‘suo’ territorio. La sua bestialità non è unica, distintiva, e la scelta di campo degli autori è molto precisa nel ricollocare l’arroganza di un atteggiamento omicida nel quadro di miseria di un territorio abbandonato a se stesso, senza servizi, né possibilità di crescita. Solo attraverso la lucidità di quest’analisi diventa chiaro che si tratta esclusivamente di una questione di tempo prima che il prepotente di turno voglia riattivare un clima di violenza per imporre la propria legge personale, come ammonisce sul finale Vincenzo Ammaliato, giornalista del Il Mattino, tra i primi ad accorrere sul luogo della strage di San Gennaro.

Un docucrime che sa mantenere l’impianto informativo

Non è la prima volta che il regista Matteo Lena si confronta con il racconto del Male: già Premio Ilaria Alpi per il documentario Le mani su Palermo, ha firmato la sceneggiatura e la regia della docuserie Il Mostro di Udine. La forza del lavoro realizzato per SkyCrime risiede in un trattamento del soggetto che sposta l’attenzione dai fascicoli delle indagini, dalle intercettazioni, dai verbali degli interrogatori alle condizioni di una comunità intera per allargare il campo della responsabilità e la capacità di identificazione di un pubblico abituato a trovare il focus del docucrime nel vicino della porta accanto, che si tratti della vittima o dell’aggressore.

L’influenza degli standard imposti da Gomorra, produzione originale Sky, a questo tipo di narrazione sono visibili nei passaggi legati alla ricostruzione del fatto di cronaca, sovrapposti alle riprese d’archivio, La Strage di San Gennaro, tuttavia, riesce ad andare oltre. L’impianto giornalistico rimane infatti l’asse portante di un racconto che non concede facili risposte. La ‘soluzione’, contrariamente a quanto accade nei classici docucrime, non risiede nella possibilità di delimitare la violenza al percorso deviato di una sola mente criminale: il pericolo è molto più pervasivo e nessuno di noi può dirsi davvero immune.

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RASSEGNA PANORAMICA
Beatrice Rinaldi
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