La Tête Haute: recensione del film di Emmanuelle Bercot

La Tête Haute

Appena un anno fa, proprio qui sulla Croisette, vedevamo con estremo stupore quel piccolo gioellino chiamato Mommy di Xavier Dolan, lanciato verso il Gran Premio della Giuria pari merito con Jean-Luc Godard. Il Festival di Cannes 2015, sessantottesima edizione dell’evento, inizia la sua corsa con un film (fuori concorso) non troppo distante, La Tête Haute (A Testa Alta), che riprende il tema dell’adolescenza complicata e violenta. Della difficile crescita in un mondo senza padri e con madri irresponsabili, seppur in superficie amorevoli. Un intero universo underground fatto di aule di tribunale, di furti d’auto, evasioni, primi amori e scelte universali.

 

Malony è spaesato, confuso, distratto e non sa cosa fare dei suoi sedici anni. Senza il supporto della scuola, senza direzione, si perde in aggressioni facili, in scatti d’ira pressocché continui, mettendosi alla guida di auto che per motivi d’età non potrebbe guidare e altri guai sparsi. Vede tutto assolutamente nero, senza sbocchi, senza nessuno disposto a dargli una mano. Solo il tempo, con le sue sorprese, riuscirà a regalargli un sorriso autentico e un proprio senso di responsabilità. Emmanuelle Bercot racconta, con uno sguardo vicino ai fratelli Dardenne, una storia cruda, sofferta, perseguendo un taglio realistico che non ha mai paura di mostrare i luoghi oscuri, i nervi che saltano, la verità. Ad alcune buone idee di scrittura e regia, che culminano in momenti estremamente emotivi, si alternano però molti, forse troppi cliché che abbassano il livello generale dell’opera.

La Tête Haute, il film

La Tête HauteÈ bello vedere tutte le distanze – sia interiori che materiali, come lo spazio che separa una cella da un parlatorio nel quale ritrovare i propri cari – siano esplicitate sullo schermo come in un buon romanzo di formazione, allo stesso tempo ci si deve scontrare con una colonna sonora destabilizzante (adatta più ad un dramma in costume firmato Stanley Kubrick, come Barry Lyndon) e scene telefonate che non destano mai sorpresa. Rod Paradot, il giovanissimo protagonista presente praticamente in ogni istante del film, è invece una rivelazione, mette l’intero progetto sulle sue spalle e lo fa funzionare quanto basta, ricordando da vicino Antoine-Olivier Pilon che in Mommy si ritrovava a fare quasi le medesime cose.

Ruolo chiave anche per Catherine Deneuve, sempre di una bellezza estrema, che nei panni di un giudice incarna la saggezza, colei che decide quando usare la severità per perseguire il bene. Parliamo di cinema impegnato che si lascia guardare con piacere, che parla al cuore, pur non esaltando a pieno. I titoli di coda hanno infatti illuminato una sala decisamente fredda, una stampa internazionale di ghiaccio. Con molta probabilità potrebbe però convincere il pubblico nelle sale e in televisione, e forse è la cosa più importante.

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