Fuori concorso a Venezia 82, Paolo Strippoli presenta La valle dei sorrisi, film che conferma la sua predilezione per l’horror come linguaggio eletto per parlare di paure sociali e intime fragilità. Dopo aver già esplorato i territori del perturbante in chiave più canonica, il regista sceglie questa volta di addentrarsi in una dimensione metaforica e quasi allegorica, in cui l’elemento soprannaturale si intreccia alla riflessione sui rapporti comunitari.
L’idea di partenza è affascinante: cosa accadrebbe se un ragazzo adolescente fosse percepito come un piccolo messia, capace di lenire il dolore in modo unico, ma anche distruttivo e incontrollabile? Da qui prende forma un racconto che, pur muovendosi entro coordinate note al genere cerca una propria via espressiva.
La valle dei sorrisi: un messia adolescente e il prezzo della consolazione
Il protagonista è Matteo, un ragazzo solitario, fragile e insieme carismatico, che diventa per i compagni di scuola e per il suo paese di montagna una sorta di icona salvifica. La sua capacità di alleviare il dolore fisico e psichico lo rende un punto di riferimento quasi religioso, tanto che il gruppo lo innalza a figura messianica. Ma dietro questa aura angelica si nasconde un’ambiguità profonda: se è vero che Matteo sembra portare sollievo, lo fa lasciando dietro di sé tracce irreversibili.

Tra riferimenti e suggestioni visive
La critica ha già evocato paragoni illustri: ci sono echi di Carrie e di The Omen, spunti che rimandano a The Village di Shyamalan, e persino un’atmosfera che guarda a certe stilizzazioni nordiche come Lasciami entrare di Tomas Alfredson o The Innocents di Eskil Vogt, fino ad arrivare al più recente Midsommar di Ari Aster. Oltre al riferimento chiarissimo a Profumo di Ruskin, ma in questo caso ci avviciniamo pericolosamente allo spoiler.
Strippoli, tuttavia, non si limita alla citazione. Se da un lato si percepiscono gli omaggi, dall’altro il regista cerca di tenere insieme i fili di un racconto che non vuole mai rinunciare all’ambivalenza morale. L’adolescente che offre la fine della sofferenza diventa il volto di una promessa pericolosa, perché vivere senza dolore equivale a vivere senza vita.
Un’idea forte, una realizzazione fragile
La valle dei sorrisi parte da un’intuizione potente: mettere in scena il bisogno di appartenenza e di consolazione come un fenomeno comunitario, capace di trasformare un semplice ragazzo in un idolo. È una riflessione che tocca corde profonde, soprattutto in un’epoca segnata dalla ricerca spasmodica di figure carismatiche e dall’incapacità di elaborare il dolore collettivo.
Nonostante la premessa, il film inciampa in un difetto che lo accompagna fino alla fine: un’eccessiva compiacenza, una sorta di ingenuità che si traduce in una messinscena a tratti troppo schematica. Strippoli sembra più interessato a sottolineare la forza del proprio assunto che a lasciare spazio allo spettatore per colmare i vuoti, e questo rischia di rendere la parabola meno incisiva di quanto potrebbe, senza il sostegno di una sceneggiatura solida.

Un passo ambizioso e imperfetto
Il risultato non è privo di fascino, ma si avverte una certa ingenuità nella gestione di un materiale tanto complesso. La valle dei sorrisi rimane un tassello importante per il percorso di Strippoli, un’opera che ha il merito di portare nel fuori concorso veneziano un discorso coraggioso sulla collettività, sul dolore e sull’ambiguità del desiderio umano.
La valle dei Sorrisi
Sommario
La valle dei sorrisi rimane un tassello importante per il percorso di Strippoli, un’opera che ha il merito di portare nel fuori concorso veneziano un discorso coraggioso sulla collettività, sul dolore e sull’ambiguità del desiderio umano.

Un’idea forte, una realizzazione fragile