Fino a che punto siamo
disposti a spingerci per soddisfare i desideri del corpo e
dell’anima? E’ intorno a questo interrogativo sostanziale che ruota
il film-scandalo del festival
di Cannes, Lo sconosciuto del lago, scritto e
diretto dal regista francese Alain Guiraudie. Un’opera di
genere – un noir classico si potrebbe definire – in cui la certezza
del delitto e dell’uccisore turba, ma non scalfisce, la passione
carnale e l’istinto primitivo di un uomo per il suo amante: per
quanto, quest’ultimo, assassino a sangue freddo. Non conta se la
verità sul finale verrà svelata pubblicamente; non ha importanza se
le indagini della polizia andranno a buon fine: quanto qui
interessa scoprire e sviscerare è la forza pericolosa e
incontrollabile dell’erotismo, dell’attrazione più impulsiva e
impetuosa. In questo caso di un uomo per un altro uomo.
«L’erotismo è l’approvazione della
vita fin dentro la morte» dice George Bataille e, come racconta il
regista, è stata questa riflessione a innescare in lui medesimo la
volontà di rappresentare, nel modo più palpabile e immediato, gli
effetti imprevedibili e impensabili del piacere fisico, e del
trasporto dei sensi, sulla ragione umana. Il personaggio di Franck
(Pierre Deladonchamps), assiduo frequentatore di una
comunità di nudisti gay in riva a un lago, si ritrova infatti a
smarrire la percezione del giusto e della realtà orribile
dell’accaduto, nonostante ne sia stato casuale e inavvertito
testimone: e questo perché travolto dalla passione sessuale per
Michel (Christophe Paou), il bagnante più avvenente, ambito
e misterioso della spiaggia. Un vortice ossessivo di emozioni, reso
plasticamente dalla nudità dei corpi e dal loro intreccio,
reiterato nel tempo e isolato nello spazio. Una routine avidamente
ricercata dai due protagonisti e materialmente manifesta in un
ambiente arioso e lagunare cui è la macchina da presa, e il lavoro
sul sonoro, a dare significato e rilevanza. Il vento fra le foglie,
il passaggio degli elicotteri, il sopraggiungere delle macchine,
l’eco della strada, sono tutte componenti che, insieme
all’alternanza della luce e dell’oscurità, di campi lunghi e di
totali, contribuiscono a restituire non tanto la dimensione
primitiva e triviale della libidine, quanto quella decadente e
malinconica. Dietro le membra scoperte o semisvestite di quelle
figurine sparse sulla sponda del lago, si coglie, oltre al
desiderio, la paura della solitudine, il bisogno di compagnia, di
condivisione e di dialogo. Basti pensare all’introversia di Henri
(Patrick D’Assumcao): una presenza quasi lirica, affascinante,
umana, che incarna più di tutte la necessità dolorosa e vera di
esprimere se stessi e di raccontarsi all’altro: fosse anche con uno
sconosciuto.