La regista de La guerra è dichiarata, Valérie Donzelli, torna, con Marguerite e Julien, a dirigere Jérémie Elkaïm, rinunciando al ruolo di protagonista, che lascia ad Anaïs Demoustier. Con Elkaïm firma la sceneggiatura, originariamente scritta da Jean Gruault per Francois Truffaut nel 1973.
Marguerite e Julien sono fratelli, figli dei coniugi de Ravalet, signori di Tourlaville, e il loro amore nasce fin dall’infanzia. La famiglia tenta di separali, ma la distanza imposta non impedisce loro di ritrovarsi insieme adulti e scoprire intatto il sentimento che li lega. Gli ostacoli aumentano quando Marguerite è costretta a sposare un uomo che non ama. Ma neanche questo basta a far recedere i due giovani dai loro propositi. Determinati a vivere liberamente la loro passione, fuggono da una società che non accetta la loro unione.
L’incesto è senza dubbio un tabù nella nostra società, come lo era in quella ben più rigida del ‘600, epoca nella quale vissero i veri Marguerite e Julien, alle cui vicende il lavoro si ispira. Tuttavia, il film non riesce a rendere la forza di un amore così travolgente da abbattere una barriera sociale che sembrava invalicabile.

La mancanza di coinvolgimento emotivo e l’eccessiva semplificazione fanno apparire il film ingenuo agli occhi dello spettatore adulto. Presentato come una leggenda senza tempo, raccontata da una narratrice esterna – un’orfana (Esther Garrel), che narra la storia di Marguerite e Julien alle sue piccole compagne di orfanotrofio – il film sembra più rivolto a un pubblico di bambini e ragazzi per spiegare loro il concetto di incesto. Valérie Donzelli pare sottovalutare sia il pubblico dei grandi che quello dei piccini e aspettarsi da entrambi la stessa reazione di coinvolgimento e stupore che le piccole orfane hanno nell’ascoltare la storia.
Formalmente la caratteristica rilevante del lavoro è la libertà nella collocazione temporale della vicenda: non in un’epoca definita, bensì con una continua alternanza, dal ‘600 al secolo scorso, ai nostri giorni. La scelta non trova una piena organicità all’interno del film e finisce per disorientare e stancare lo spettatore. Occorre attendere le parole di Walt Whitman e la poetica sequenza finale per trovare una soluzione efficace, quanto ormai tardiva.
