Maternity Blues: recensione del film con Andrea Osvart

Maternity Blues

A quanto pare, il cinema italiano non si limita a sfornare commedie demenziali e opere di chiaro stampo cabarettistico-televisivo, ma riesce a ritagliarsi qua e là degli spazi più complessi, spazi di riflessione che diano vita a pellicole di qualità. È il caso del lungometraggio firmato da Fabrizio Cattani (nel 2006 autore de Il Rabdomante), Maternity Blues.

 

In Maternity Blues Quattro donne, quattro madri diverse eppure unite da un dramma comune: l’infanticidio. Clara, Eloisa, Caterina detta “Rina” e Vincenza trascorrono le ore in un ospedale psichiatrico giudiziario, zona-limbo in cui il tempo sembra sospeso, un rifugio e al tempo stesso una prigione in cui espiare la propria colpa. L’ultima arrivata è Clara (una straordinaria Andrea Osvart), fresca di carcere e ancora sotto shock, incapace di accettare il perdono del marito Luigi (Daniele Pecci), che nel frattempo ha cambiato vita trasferendosi in Toscana. Eloisa (Monica Birladeanu), cinica e apparentemente indifferente alla propria situazione, mostrerà nel corso della storia una fragilità che la avvicina alle altre. Rina (la giovane Chiara Martegiani), ex ragazza-madre che ha affogato la figlia in una vasca da bagno, lotta contro sporadiche crisi epilettiche e sogna un futuro “normale”. Vincenza (Marina Pennafina), tiene un diario in cui scrive quotidianamente ai 2 figli rimasti in vita, sorretta da una fede religiosa che tuttavia non la porterà al perdono. Tra loro nascerà un’amicizia che è accettazione ma anche condanna dell’altra e di sé, un tentativo di sopravvivere insieme al senso di vuoto generato dal più incomprensibile dei gesti.

Cattani affronta un tema scomodo e per questo suscettibile di letture frettolose, spesso superficiali, cercando di fotografare quello che oggi è un disturbo sempre più diffuso: la depressione post partum. Partendo dal testo teatrale di Grazia Verasani “From Medea”, da cui la sceneggiatura a 4 mani del film, l’autore rappresenta senza condanna un malessere di cui si sa ancora troppo poco, ma che colpisce fino al 30% delle donne. Certo, nei confronti delle madri-assassine non c’è nemmeno alcuna forma di assoluzione/giustificazione, bensì la volontà di andare oltre facili pregiudizi, nel tentativo di comprendere una realtà il più delle volte filtrata dai mass media.

In Maternity Blues le riprese dall’alto delle sedute di gruppo restituiscono visivamente il senso di claustrofobia e di vertigine che attanaglia le protagoniste, trasferendolo abilmente sullo spettatore. Ottime le musiche, firmate da Paolo Vivaldi, e le scenografie di Daniele Frabetti riescono a descrivere la solitudine delle esistenze che si consumano tra le pareti dell’ospedale. Con un budget di 400mila euro, Maternity Blues uscirà nelle sale in 15 copie dal prossimo venerdì.

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Ilaria Tabet
Laureata alla specialistica Dams di RomaTre in "Studi storici, critici e teorici sul cinema e gli audiovisivi", ho frequentato il Master di giornalismo della Fondazione Internazionale Lelio Basso. Successivamente, ho svolto uno stage presso la redazione del quotidiano "Il Riformista" (con il quale collaboro saltuariamente), nel settore cultura e spettacolo. Scrivere è la mia passione, oltre al cinema, mi interesso soprattutto di letteratura, teatro e musica, di cui scrivo anche attraverso il mio blog:  www.proveculturali.wordpress.com. Alcuni dei miei film preferiti: "Hollywood party", "Schindler's list", "Non ci resta che piangere", "Il Postino", "Cyrano de Bergerac", "Amadeus"...ma l'elenco potrebbe andare avanti ancora per molto!